Lasciate che la Scuola torni a vivere!

Ditemi che non è vero! Ditemi che la scuola tornerà a funzionare nella normalità, che non ci saranno ragazzi che resteranno a casa dinanzi ad un computer ad attendere il loro turno, e che non saranno imposte cappe trasparenti sulla testa di bambini e di insegnanti, né barriere in plexiglas. Ma davvero, dopo tanti anni di studio trascorsi sui manuali pedagogici, dopo innumerevoli corsi con gli esperti, esperienze di socializzazione, di individualizzazione dell’insegnamento, studi specifici per aiutare i bambini in difficoltà di apprendimento, strategie educative poste in essere per conquistare la loro attenzione facendo leva sui sentimenti, sulle emozioni, sui rapporti fra pari…davvero tutto ciò verrà improvvisamente vanificato, annullato da un magistrale colpo di Covid?

Ditemi che è uno scherzo perché davvero è impensabile! Sarei molto curiosa di chiedere al ministro Azzolina in quale tipo di scuola si è formata, che insegnanti ha avuto, dove ha frequentato le scuole elementari…Mi piacerebbe conoscere le sue esperienze scolastiche… Cosa condivideva con i suoi compagni? Ha mai provato in questi anni ad entrare in una classe di scuola primaria? Pensa davvero che i bambini di oggi si lasceranno docilmente incapsulare e imbavagliare durante le lezioni?
In tal caso, avrebbe davvero una ben strana idea dei bambini, lontana anni luce dalla realtà.

Entrare in una classe, per l’insegnante, significa affrontare il più grande banco di prova della sua vita, ed è un esame che bisogna superare ogni mattina. Al momento del suo ingresso in aula, ogni maestra sa benissimo che il bambino la scruta, la esamina, la valuta: osserva com’è vestita, com’è il suo umore, se ha fatto la messa in piega, riconosce persino il suo profumo… in sostanza, è come essere trapassati dai raggi x sino al termine delle lezioni. Ma, a partire da quell’istante, ogni docente realizza che è già in atto gran parte della partita da giocare e, se saprà conquistare il cuore degli alunni con un sorriso, con un saluto, con uno sguardo o una carezza, avrà già svolto bene mezza lezione. Il bambino, dal canto suo, vuole essere apprezzato, sedotto magari da un complimento per un lavoro ben fatto, soddisfatto dall’attenzione che riceve e che lo gratifica. A scuola entra in gioco tutto il suo essere, il suo orgoglio, talvolta la sua sete di affetto, il bisogno di essere accolto e capito, l’ansia di imparare… Ma per realizzare tutto ciò v’è un solo canale d’accesso: il contatto con l’altro, sia esso insegnante o compagno di banco, quella sorta di gioiosa complicità che si instaura fatalmente con gli occhi, con le parole, con i gesti, con la vicinanza. Soprattutto se un alunno è di classe prima, cosa lo tratterrà dal correre incontro alla maestra per abbracciarla al mattino, per salutarla con l’affetto e la spontaneità tipica dei fanciulli? Davvero ci vorrà una bella dose di autorevolezza, insieme a tanta sensibilità, per far tornare al proprio posto ogni bambino. Il posto nel proprio banco: è questo un elemento importante che, nel corso dell’anno, può indurre ad adeguamenti, per esigenze di silenzio o, magari, per assecondare il desiderio di un bambino che vuol stare vicino all’amico del cuore, oppure per stimolare la sua maggiore attenzione.
Come potrà avvenire questo oggi, nello scenario quasi orwelliano che si profila all’orizzonte?

Si legge di alunni che saranno rigorosamente distanziati per almeno un metro dagli altri compagni, “collocati” in postazioni dotate di barriere in plexiglas, protetti da faraoniche visiere.

Così pure per l’insegnante! Ma quale tipo di socializzazione potrà mai germogliare da un simile assetto scolastico, in un contesto educativo già concepito per distanziare, isolare e designato inevitabilmente a suscitare diffidenza nei confronti degli altri? Un sistema che, d’altro canto, indurrà gli insegnanti ad essere estremamente esigenti, ben attenti a sanificare, pulire, separare, magari utilizzando anche il ridicolo metro delle nuove rime buccali. Quale ambiente psicologico ed emotivo sarà possibile predisporre in tale allucinante condizione? E per correggere i compiti, l’insegnante come dovrà fare? Disinfetterà le mani con l’amuchina ad ogni pagina che sfoglierà? Cosa ne sarà, attraverso le visiere, degli sguardi rassicuranti che i bambini amano ricevere e che, spesso, sono l’incentivo migliore per un buon rendimento scolastico?

Nella vera scuola, la lezione è come la messa in scena della più bella opera di teatro che un regista possa mai immaginare. In essa, la maestra diviene nel contempo attrice e regista, ma il vero protagonista rimane sempre il bambino: affascinato, coinvolto nei racconti, nelle domande, nei quesiti… un essere umano con sentimenti, energie esuberanti, ribellioni, e che vuole mostrare il suo sapere non solo con la voce ma anche attraverso continui feedback del suo corpo: infatti, quando l’alunno sa di poter fornire una giusta risposta, si illumina nello sguardo, si agita, solleva la mano, talvolta si alza in piedi per precedere il compagno, magari bisticcia, poi fa pace…ed è tutto un fluire di movimenti prevedibili ed imprevedibili.

È la vita scolastica! Ed è la scuola che io ho vissuto in tanti anni d’insegnamento: intessuta a fili d’oro di bellissimi incontri; di banchi vicini, anche troppo, se non addirittura attaccati alla cattedra per mancanza di spazio; di bambini che spesso condividevano lo stesso libro o si stringevano felici per far posto ad un compagno con il quale dovevano lavorare. In questa scuola, per anni, è stato chiesto alle insegnanti di essere più vicine a chi mostrava maggior difficoltà, di predisporre percorsi personalizzati per l’alunno che necessitava di essere seguito personalmente, con pazienza e con amore.

Altro che bambini distanziati, protetti da visiere come astronauti e silenziati da mascherine! Fa male, oggi, immaginarli così robotizzati, sanificati, apparentemente più protetti ma in realtà deprivati della loro esigenza di affettività, di rapporti umani, assurdamente limitati nella creatività e spontaneità.

Allora ditemi: davvero tutti voi pensate che i bambini resteranno zitti e fermi, ingabbiati nei loro angusti spazi? E quando vi capiterà in classe il Michael, il Pierino della situazione, quello che schizza d’improvviso fuori dall’aula e corre tanto veloce per i corridoi scolastici che neanche Bolt, o il bidello più atletico riuscirebbero ad acchiappare, o quello che gironzola sempre nella classe e si butta per terra strisciando come un soldato in trincea, oppure quello che si rifugia sotto la cattedra e non vuole più uscirne? Cosa farà l’insegnante? E quando costui andrà ad abbracciare il compagno che predilige? Bisognerà forse prendere il metro e misurare la distanza fra le rime buccali?

Per anni, schiere di pedagogisti e psicologi, ci hanno invitato a predisporre ambienti scolastici atti a far germogliare, oltre alla cultura, la miglior vita sociale e morale per gli alunni, affinché potessero imparare a costruire correttamente la loro vita interiore e il loro stesso futuro. Ai docenti è stato chiesto di favorire l’assimilazione di norme di convivenza, di adeguati comportamenti, di abitudini e sani stili di vita per rendere gli alunni capaci di rispettare, collaborare e realizzare un obiettivo comune. Sono state perciò create magnifiche occasioni per farli stare insieme nelle attività ludiche o, magari, per la realizzazione di un bellissimo cartellone, ponendo così le premesse per abituarli alla cooperazione, alla solidarietà, alle relazioni affettive. Ed è così, nel gruppo, nella vicinanza con gli altri che si cresce, si matura, si lima il proprio ego. È nel giocare insieme, nelle sfide, nelle sane competizioni, che si instaurano le relazioni d’amicizia, si impara a vivere, a rispettare, ad amare.

Guido Petter, psicologo, scrittore e accademico italiano, diceva: “Io vorrei che la scuola fosse un luogo in cui all’alunno venisse offerta ogni giorno l’occasione di vivere frequenti momenti di felicità”. Egli concepiva l’alfabetizzazione culturale come strettamente connessa alla formazione delle persone, alla partecipazione attiva del bambino a esperienze di crescita attraverso il gioco, a ricerche condivise con i compagni, ad ogni possibilità di socializzare. Il suo pensiero è stato anche il mio programma di vita in tutti gli anni d’insegnamento. Sono felice di averlo personalmente conosciuto e di averne potuto apprezzare anche la profonda umanità; mi riempie ancora di gioia una sua lettera in cui mi manifestava sentimenti di stima per un libro da me realizzato con i miei alunni: “…Credo che questi suoi allievi conserveranno per tutta la loro vita il ricordo di una maestra che li ha aiutati a crescere, ha voluto loro bene, e li ha trattati – sono loro a dirlo -come una loro mamma. Sono convinto che questo ricordo positivo che durerà nel tempo costituisca, per un’insegnante, la migliore ricompensa…”.

Miracoli questi che potevano avvenire solo in quel tipo di scuola! Se davvero oggi si vorrà creare nella scuola un ambiente umano e psicologico ristretto, limitato dalle paure, noi finiremo sicuramente per educare nativi digitali, molto bravi in tecnologia, ma distanti tra loro come isolotti sperduti nell’oceano del mondo: sarebbe un imperdonabile errore, una terribile limitazione della ricchezza dell’animo infantile.

Mancano ancora due mesi alla ripresa dell’attività scolastica ed io avrei una richiesta da rivolgere ai parlamentari, in particolare al ministro Azzolina: “Per favore, lasciate che la Scuola si riappropri della sua nobile funzione, lasciate liberi i bambini di condividere spazi, amicizie e affetti senza paura, perché possano coltivare e godere di quanto di più bello ci offre la vita: l’umanità!”

E poiché sono convinta che non possa esserci efficace opera educativa laddove manca l’Essenziale, voglio concludere con questo piccolo frammento del Vangelo, un brano che ci mostra il grande insegnamento di Colui che, solo, può, deve, essere chiamato Maestro: “Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “«Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso». E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva” (Marco 10:13-16).

Antonella Paniccia

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Condivido ogni parola! grazie ! Dino macioce