La paura e la speranza secondo Giulio Tremonti

Di David Taglieri

Si discute molto di Giulio Tremonti per stabilire se merita o demerita come ministro dell’economia e se e quanto sia liberale. C’è però, da parte dei critici, spesso, confusione fra liberismo, cioè economia di mercato senza regole per assicurare la concorrenza (che lui critica come «mercatismo») ed economia di mercato libero. Ed ecco il merito, che io chiamo storico, con cui egli può essere paragonato a Quintino Sella e Marco Minghetti, i due ministri della Destra storica, che nel 1870-1876 raggiunsero il pareggio del bilancio. Un obbiettivo previsto dalle leggi sulla finanza pubblica di Tremonti entro il 2013, basilare per la stabilità e la crescita economica duratura. Non è solo suo merito, ma anche di Berlusconi che gli dà fiducia, sopportando le sue pecche e le lamentele dei ministri colpiti dalla lesina (Francesco Forte, Il Giornale, 24 aprile 2011).

Mentre scriviamo il panorama politico è ancora in divenire, ma queste righe di Francesco Forte sintetizzano al meglio una delle figure politiche più amate e parimenti contestate degli ultimi anni, quella del prof. Giulio Tremonti. A dispetto della satira, anche aggressiva, di cui è stato oggetto da più parti e che lo ha talora dipinto come un dilettante, Tremonti però non nasce oggi. Giancarlo Perna sul quotidiano Il Giornale del 22 aprile scorso ne ha ripercorso il curriculum: “Bellunesi gli avi, valtellinese di nascita, Giulio Tremonti racchiude in sé i due mondi: follia veneta e praticità lombarda. Imprevedibile e contraddittorio. Punto comune tra le sue etnie – dolomitiche le une, orobiche le altre è che sono entrambe alpestri. Dunque, testa dura. Il Cav se l’è trovato per caso sulla sua strada. Tremonti nuotava nel vivaio socialista di Gianni De Michelis. Si era formato alla scuola di Franco Reviglio, barone rosso garofano e ministro delle Finanze nei primi ’80, tra altri giovanotti promettenti: Vincenzo Visco – futuro ministro PD, ribattezzato Dracula per la voracità fiscale – Domenico Siniscalco, Franco Bernabè, Alberto Meomartini, tuttora in auge e ben piazzati. Scomparso il Psi con Tangentopoli, Giulio si candidò al­la Camera col Patto Segni nelle elezioni 1994 vinte da Berlusca. Messo piede a Montecitorio, fece il sal­to della quaglia dalla sinistra al Cav. Un’ora dopo era ministro delle Finanze. Imprevedibile e contraddittorio, appunto. Si era svolto tutto così in fretta che né Silvio, né Giulio pensarono di verificare se le loro idee erano compatibili. Che il Cav si considerasse liberale l’aveva detto in tutte le salse. Cosa fosse invece Tre­monti, oltre che socialista, non lo sapeva nessuno. Lì per lì, la cosa non ebbe peso perché il primo governo di centrodestra durò lo spazio di un mattino e seguirono sette anni di opposizione.” A questa domanda risponde invece, almeno in parte, l’ultimo libro pubblicato proprio dal più volte ministro della Repubblica: La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, (Mondadori, Milano 2008) i cui slogan ideali di riferimento potrebbero essere: “abbiamo i cellulari ma non abbiamo più i bambini” e “in un mondo rovesciato, oggi il superfluo costa meno del necessario”. Il libro, una riflessione ampia sulla crisi globale, in effetti constata come in poco più di dieci anni siano radicalmente cambiate tanto la struttura quanto la velocità del mondo e raccomanda energicamente la rivalutazione di una virtù cristiana come la speranza che “non può nascere solo sul terreno dell’economia, ma su quello della morale e dei princìpi”.

La critica si rivolge contro quella classe dirigente europea, trasversalmente tecnocratica, definita come gli “illuminati” di ottocentesca memoria, che come i massoni di un tempo impongono le loro decisioni ristrette – anche in campi sensibili – a tutti ma non rendendo conto a nessuno e non rispondendo del loro operato a nessuno. Tuttavia, ce n’è anche per quegli economisti che, in preda a un’ideologia fanatica, non concepiscono regole minime al mercato (è l’effetto de “l’estasi della droga mercatista”) e ignorano ogni istanza morale contribuendo al trionfo di una società sempre più materialista, edonista e in ultima analisi, mettendo avanti la giustificazione della laicità, nichilistica. Tremonti scrive infatti che nell’Occidente di oggi non c’è una povertà solo economica ma anche e soprattutto spirituale, culturale, valoriale. La povertà spirituale, però, ciascuno nel nostro piccolo, la possiamo respingere, in quanto siamo noi gli autori delle idee che hanno generato disagio e disadattamento e che pure contribuiamo a diffondere negli ambienti in cui operiamo quotidianamente.

L’età della globalizzazione, poi, è coincisa con quella che altri hanno definito la ‘dittatura del desiderio’: un’epoca in cui i desideri si riproducono infinitamente uno dopo l’altro ed hanno sostituito i bisogni materiali di un tempo che erano legati invece al valore del lavoro, della rinuncia e quindi della giusta soddisfazione del guadagno. Nel libro si rilevano inoltre annotazioni interessanti di carattere geopolitico, soprattutto legate alla perdita del baricentro commerciale del Mediterraneo, che sarà sostituito presto dall’Oceano Pacifico e dall’area delle economie emergenti (Cina, India ma anche Brasile, Russia). Quest’ultimo aspetto in particolare sarà decisivo per Tremonti perché se i processi attuali di globalizzazione non saranno opportunamente governati, e indirizzati, ci troveremo ben presto di fronte a “un colonialismo asiatico di ritorno che asservirà l’Europa”. In questo contesto è chiaro che l’Europa rischia di perdere sempre più il suo tradizionale ruolo di centro geopolitico, e diventare magari un appendice dell’America o dell’Asia, a seconda delle circostanze. Si tratta di un discorso che l’autore aveva già affrontato nel 2005 con il saggio Rischi fatali. L’Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come reagire (Mondadori) e in cui Tremonti segnalava, oltre alla questione dibattuta relativa alla regolamentazione dei flussi migratori, anche l’emergenza della questione demografica secondo degli elementari, ancorché dimenticati, assiomi di mercato: un Paese che non si riproduce (ovvero non fa figli, ndr) non crea sviluppo, né ricchezza perché taglia alla base la propria domanda interna.

In questa situazione di caos diffuso e generalizzato, l’autore teme peraltro che un’altra rivoluzione si profili ormai all’orizzonte: quella genetica, della tecno-scienza, applicata indistintamente ai prodotti agricoli e all’uomo, senza remore legali o morali. L’Europa, sempre più debole, politicamente ed economicamente, continua a subìre infatti le spinte eversive e i  diktat immorali delle economie altrui (ma l’economia è sempre specchio di una visione dell’uomo) con il concreto rischio di degradarsi civilmente – prima – e di sparire dalla storia poi: per uscirne, secondo Tremonti, è necessario ritrovare allora nuove regole (politiche e giuridiche) e antiche radici (spirituali e culturali). Un nodo centrale è rappresentato dall’identità: com’è possibile accettare acriticamente tradizioni e culture altrui – si chiede Tremonti – se non siamo prima in grado di comprendere chi siamo noi e la nostra storia? C’è spazio quindi anche per la dimensione religiosa della società, solitamente trascurata dai burocrati di Bruxelles, e per una vivace critica al laicismo che oscura, o deforma, il valore fondamentale della religione.

Una civiltà non può fondarsi, come sembra fare l’Europa attuale, sulla triade ‘Tecnica-Finanza-Tecnologia’ marginalizzando la politica identitaria e culturale: così il nuovo dio diventerebbe il mercato per il mercato, senza limiti, insieme all’ideologia effimera della new economy, centrata sul paradigma del low cost, e il consumismo sfrenato (etichettato significativamente nel motto “consumo, dunque esisto”). In questo contesto gli Stati nazionali devono ritrovare invece convintamente la loro sovranità, in tutti i campi ove sia ancora possibile, e riappropriarsi della loro politica estera, soprattutto a fronte dell’ascesa dell’Islam fondamentalista che, in un blocco unico, investe religione, società ed economia divorando ogni residua forma di pensiero debole davanti a sè. Serve insomma una visione che non escluda Dio, non demonizzi lo Stato, e al tempo stesso non creda fideisticamente nel mito assoluto del progresso, come se questo potesse risolvere tutto. Piuttosto, Tremonti giudica imprescindibile per la rinascita il testo del regnante Pontefice, Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, motivando questa scelta con il fatto che non si può governare la storia prescindendo da Dio. In conclusione, e in definitiva, si tratta di rifondare nuovamente la politica europea a partire da sette parole d’ordine: valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità e federalismo dove l’accento è posto soprattutto sulle prime tre. E, in tutti questi campi, bisogna avere il coraggio di ritornare alle radici dell’identità europea, in un percorso che va nella direzione opposta rispetto alla rivoluzione culturale del 1968 e ai suoi errori.

In Il Corriere del Sud, anno XX/11, n. 13, p. 3

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