Covid, la normativa emergenziale altera fondamenti e qualità delle decisioni

Di Daniele Trabucco

Nel 1929 Hans Kelsen, il «padre» della scuola normativistica, scriveva che «democrazia» è la «parola dominatrice» dei secoli XIX e XX.

La si usa per scopi più diversi e in tutte le possibili occasioni, anzi il linguaggio politico, continua Kelsen (1881-1973), la «degrada ad una fase convenzionale che non esige più un senso determinato».

L’emergenza sanitaria, causata dalla diffusione del Covid-19, ha mostrato in maniera evidente la perdita della dimensione del «deliberativismo» a favore del decisionismo.

Mentre, infatti, i processi deliberativi sono fondati sull’informazione, sul dibattito, la decisione, viceversa, li esclude.

In una fase emergenziale la discussione preclude ovviamente la possibilità di intervenite tempestivamente e con misure efficaci.

Tuttavia, al di là del fatto che le misure assunte, a partire dall’inizio della c.d. fase 2, si sono rivelate fallimentari (come prova la narrazione quotidiana dei media), il vero problema risiede nel fondamento e nella qualità della decisione.

Questo, come del resto quello della stessa democrazia deliberativa, è il medesimo, mutando solo le modalità: la convinzione collettiva della necessità di regole per il funzionamento della società a maggior ragione quando questa è minacciata.

L’effettività sostituisce, dunque, la giuridicità, trasformando il diritto in mero potere sia pure esercitato nel rispetto formale delle procedure.

In altri termini, quando leggiamo le disposizioni contenute nei diversi DPCM, da ultimo quello del 03 novembre 2020 (in vigore dal 06), e loro incongruenze logiche (perché, ad esempio, i barbieri aperti e non i centri estetici come se il contagio avvenisse solo con la pedicure e non tagliando i capelli), assistiamo ad un diritto cui viene negata la sua intrinseca razionalità.

La normativa emergenziale ha svelato, ancora di più, l’assurdo dell’identità, propria del positivismo giuridico, tra validità formale e validità logica.

Molti autorevoli giuristi giustificano l’agire del Governo della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, prof. avv. Giuseppe Conte, ritrovandosi (forse a loro insaputa) ad essere, per dirla con le parole di Marino Gentile (1906-1991), «enzimi» del potere.

 

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