La bioeticista Bovassi: “l’aborto determina un preciso rovesciamento antropologico”

NON SUSSISTE UNA FORMULA CHE RENDA LEGITTIMO SOPPRIMERE DELIBERATAMENTE UNA VITA UMANA INNOCENTE E VULNERABILE SENZA CHE QUESTA PREVARICAZIONE NON SI DIA COME UNA NEGAZIONE DELLA DIGNITÀ INTRINSECA DI QUELL’ESSERE UMANO

Di Maria Luisa Donatiello

L’aborto “determina un preciso rovesciamento antropologico”. Lo dice a Informazione Cattolica la bioeticista Giulia Bovassi.

Classe 1991, studi filosofici presso l’Università degli Studi di Padova, licenza in Bioetica e perfezionamento in “Neurobioetica e Transumanesimo” presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA), la professoressa Bovassi è una giovanissima ed apprezzata bioeticista.

Dopo un master in Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale conseguito presso l’Università Europea di Roma e l’APRA, attualmente Giulia Bovassi è research scholar della Cattedra Unesco in “Bioetica e Diritti Umani”. 

Nonostante la giovane età la dottoressa Bovassi ha all’attivo diverse pubblicazioni accademiche e anche alcune opere di saggistica. Dopo “L’eco della solidità. La nostalgia del richiamo tra antropologia liquida e postumanesimo”, ha ricevuto notevoli consensi la sua “Guida bioetica per terrestri. Da Fulton Sheen al cybersesso”, edito da Berica Editrice

La difesa della vita nascente è tema caro alla bioetica personalista che pone al centro della propria riflessione la persona, nel suo insieme inscindibile di corpo, mente e anima, e la vita come diritto inalienabile. Le chiedo una sua personale opinione sul concetto di “diritto” attribuito alla pratica dell’aborto. È moralmente corretto considerare l’aborto un “diritto” al cospetto dell’opposto “dovere” etico di rispettare la vita altrui fin dal concepimento?

Penso che coloro i quali sostengono un presunto “diritto all’aborto” (intendendo chiaramente aborto volontario) nel 2021, cioè in un’epoca in cui la scienza per prima ha messo fuori discussione ogni dubbio sulla non-umanità del concepito, dovrebbero parlare di compromesso ideologico. Non sussiste, infatti, una formula che renda legittimo sopprimere deliberatamente una vita umana innocente e vulnerabile senza che questa prevaricazione non si dia come una negazione della dignità intrinseca di quell’essere umano. I diritti umani (universali, inalienabili, indisponibili, inviolabili), fondati proprio sul riconoscimento di questa dignità, lo sanciscono fin dal Preambolo della DUDU, cioè pongono l’obbligo morale di questa verità sull’uomo come presupposto da cui discendono diritti e doveri. Ora, posta l’umanità del concepito in quanto appartenente alla specie umana, è evidente che nel corso del suo sviluppo continuo, graduale e coordinato egli non smette mai di essere ciò che è sempre stato: un essere umano. Non esistono, infatti, salti ontologici o biologici che dimostrino il contrario. Paradossalmente questo fatto di ragione viene confermato da posizioni utilitariste come quella del bioeticista Peter Singer, noto per le tesi a sostegno dell’aborto post-nascita, sulle quali ha ribadito più volte che “al parto non accade nulla di extra-ordinario”, ovvero che il parto non trasforma un “x” in essere umano. Pertanto, secondo Singer, chi è a favore dell’aborto non dovrebbe più di tanto scandalizzarsi per l’aborto post-nascita poiché è sempre di un bambino che si parla. Si può dedurre logicamente che il concepito rievoca in ogni altra donna e ogni altro uomo l’obbligo morale di riconoscere la sua vita come un diritto inviolabile poiché egli, essendo appartenente al consorzio umano, possiede una dignità intrinseca in virtù della sua natura umana. Un figlio nel grembo materno ha valore solo quando è voluto oppure ha valore in sé? Questa è la domanda che la società deve avere il coraggio di porsi in un tempo in cui si tende ad avvallare chi mette a tacere o discrimina coloro i quali si spendono per dire “salviamo e amiamo madre e figlio, aiutiamoli entrambi”: una risposta di accoglienza concreta, maturata dalla consapevolezza del dolore e della difficoltà sottostanti il fenomeno dell’aborto. Purtroppo oggigiorno, oltre alle ragioni economiche, eugenetiche, familiari, personali ed eccezionali per le quali una madre è spinta a interrompere la vita del figlio, vi è una fortissima banalizzazione incrementata dall’aborto farmacologico: ciò non è eticamente indifferente, e non lo è nemmeno spiritualmente, ma rende l’idea di come l’aborto determini un preciso rovesciamento antropologico. Uomini e donne, qualunque sia il loro grado di sviluppo, di salute o autonomia, non sono mai identificabili come oggetti: essi sono e restano sempre dei soggetti ed è la ragione per cui quando una donna scopre di essere madre annuncia l’attesa di un figlio, non del “prodotto del concepimento” o di un “materiale di scarto” o, ancora, di un generico “x”. Sa che sta vivendo quel privilegio unicamente femminile di custodire la vita e garantire la continuità della specie umana. Laddove ci si trova dinanzi a una vita umana, là si sta contemplando qualcosa di sacro. Una dignità, cioè, che non ammette gradi o compromessi. Una dignità che non può essere data né essere tolta. Hannah Arendt nei suoi scritti ha messo in guardia sul pericolo di dimenticare che non c’è autorità superiore alla dignità umana. Diceva infatti che «la concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui (…) il mondo non ha trovato più nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere umano. (…) Separare l’uomo della persona significa di fatto introdurre dei gravi problemi di giustizia sociale e minare il principio politico dell’uguaglianza».

Con l’inevitabile sviluppo tecnologico, scientifico e dell’intelligenza artificiale la società odierna sta andando verso un nuovo “umanesimo”? Quali sono a suo avviso i principali risvolti bioetici dello sviluppo delle neuroscienze e quali i vantaggi?

Gli sviluppi nel campo delle neuroscienze, quindi della neuro(bio)etica, sono molto diversi tra loro oltre che in continua, rapidissima evoluzione (accelerazione) e penso conservino il potenziale per contribuire alla realizzazione del bene comune. Come spesso accade, la tecnologia porta con sé non solo un carattere ambivalente, duplice, bensì anche estremamente pervasivo e lo possiamo constatare nel digitale o nelle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, tanto per citare i due ambiti attualmente di maggiore attrattiva nel mondo accademico, così come nel dibattito pubblico. Quell’ambivalenza, di cui accennavo poc’anzi, con le nuove tecnologie richiede uno sforzo etico in larga parte inedito affinché il giudizio morale possa rendere conto del fatto che la convivenza tecno-umana esige l’instaurazione di un rapporto di fiducia, alleanza tra l’essere umano e la tecnica totalmente nuovo. In particolare ciò appare evidente quando ci si avvicina ai numerosissimi ambiti di applicazione dell’AI (Artificial Intelligence), i quali richiedono riflessioni etiche specifiche; della Roboethics; delle ICT (Information and Communication Technologies); dell’IOT (Internet of Things) fino a quello dei Big Data (“algoretica”), per nominarne alcuni. Lo sforzo neuroetico è necessario al fine di evadere da polarizzazioni tecnofile o tecnofobiche, cercando di indagare con equilibrio il tipo di impatto di un artefatto che talvolta diviene agente attivo oppure di un riduzionismo dato centrico dell’essere umano e della sua crescita, maturazione, espressione, realizzazione. Non è sufficiente accordare un ricettario etico: serve una comprensione profonda dell’essere umano. Penso si possa affermare che, paradossalmente, le stesse spinte che sembrano de-centralizzare il valore umano (ed è un rischio concreto) conservano anche la possibilità di avvicinarci a lui. I vantaggi di queste tecnologie sono innegabili, così come lo è ammettere quanto sia delicata la proporzione rischi/benefici fortemente improntata su principi di responsabilità e precauzione. Qui l’etica deve prestarsi a un lavoro tanto urgente quanto complesso. A tal fine è imprescindibile porsi con atteggiamento rigoroso verso il progresso, senza supporre che tra “poter fare” e “dover fare” vi sia una consonanza aprioristica. Come spesso viene ribadito in letteratura, tutto dipende da come noi poniamo la questione etica, oltre che dalla gerarchia di beni e principi posta a guida del progresso. Da quest’ultimo punto dipende anche la crescita o decrescita delle correnti Trans e Post-umaniste che si rifanno a scienza e tecnologia (Genetica, Nanotecnologie, Robotica – GNR Revolution) con lo scopo filosofico di arrivare alle soglie del “nuovo umanesimo”, in cui i connotati essenziali della condizione umana saranno depotenziati al punto da renderla materia a disposizione nell’intento di un futuro basato sulla de-sostanzializzazione della natura umana. Il fine ultimo non ha valenza metafisica e spirituale, bensì aspira a una sopravvivenza (immortalità digitale) edonistica e totalmente immanente (teoria della Singolarità), tesa a liberare l’individuo dalle costrizioni dovute alla sua mortalità, prima fra tutte la sofferenza. La tecnica in questo funge da garante. L’obiettivo è talmente denso di quel che si definisce anti-antropocentrismo e talmente appetibile in una società che conserva già in sé un disaccordo sostanziale sull’essere umano (al punto da adottare spesso visioni materialiste), da far sì che pensatori autorevoli come Francis Fukuyama siano giunti a dichiarare questi movimenti come “l’idea più pericolosa al mondo”.

Dopo i libri da lei già scritti ha in programma una prossima pubblicazione? Se si ci può anticipare già le tematiche che intenderà trattare?

Sì, prima di questo terzo scritto verranno pubblicati numerosi contributi nei prossimi mesi sia di bioetica che di filosofia, ma colgo con gioia questa prima occasione per “annunciarlo”! Il terzo testo è attualmente ancora in una fase iniziale di lavorazione e sarà in continuità con la prima pubblicazione, “L’eco della solidità”, della quale verranno ripresi alcuni concetti e tematiche fondamentali (ad esempio la nozione di “assopiti dinamici”, il trans e post-umanesimo e la nostalgia), non ultima quella riguardante alcuni ambiti di applicazione delle tecnologie cosiddette emergenti-convergenti. All’interno saranno certamente affrontati anche dilemmi di natura neurobioetica (in particolare per ciò che concerne le ICT), ma avrà un taglio prettamente filosofico e costruito attorno a un concetto fondamentale (che comunicherò con piacere quando il lavoro sarà in fase avanzata), per comprendere la rivoluzione antropologica che stiamo vivendo.

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