“Elogio” della morte e della malattia
IN QUESTO TEMPO DI PANDEMIA ANZICHE’ DIFFONDERE ANCOR PIU’ LA PAURA DEL CONTAGIO CERTI PRETI AVREBBERO FATTO MOLTO MEGLIO A RICORDARE CHE LA MORTE E LA MALATTIA FANNO PARTE DELLA PROSPETTIVA CRISTIANA E POSSONO ADDIRITTURA TRASFORMARSI IN UNA GRAZIA
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Di Pietro Licciardi
In questo tempo di pandemia purtroppo una grande occasione sembra essere andata sprecata: richiamare un popolo cristiano sempre più ateo all’importanza di affrontare degnamente la morte, la sofferenza e la malattia.
Che malattia e morte siano condizioni ineluttabili della nostra esistenza, essendo noi creature delicate e a non troppo lunga conservazione, dovrebbe essere noto e scontato ma a quanto pare non è affatto così a giudicare dalla psicosi che l’epidemia cinese ha scatenato, anche in certo clero.
Con la chiusura pasquale delle chiese, gli ingressi contingentati a Messa, il prosciugamento delle acquasantiere e la comunione obbligatoriamente distribuita sulla mano molti sacerdoti ci hanno di fatto comunicato che la salute del corpo viene molto prima di quella dell’anima e che la malattia e la morte sono una jattura da evitare ad ogni costo: meglio presentarsi da Nostro Signore senza sacramenti e con l’anima sporca che infetti. Sia mai che pure il Paradiso debba patire un lookdown.
La paura della morte e della sofferenza è senz’altro uno dei più evidenti “segni dei tempi”, per usare un termine che piace tanto a certo clero, che dà la misura del grado di ateismo contemporaneo, anche di tanti che si definiscono cattolici.
Eppure in una prospettiva di fede la morte non è affatto una sciagura e la sofferenza propria o dei nostri cari può addirittura essere un dono. Si, avete letto bene: un dono.
Morire è una dolce liberazione per chi sa che il suo passaggio su questa terra è solo una tappa, una prova attraverso la quale conoscere Dio, amarlo e guadagnarsi così il premio della vita eterna, mettendo finalmente il punto sulle tribolazioni terrene, mentre la paura del trapasso è tipica dell’ateo, per il quale tutto si risolve in questo mondo perché dopo c’è il nulla.
Ma anche la sofferenza può essere una grazia se serve a scontare qui e ora i propri eventuali peccati. Meglio soffrire per mesi o magari per anni che stare chissà quanto in purgatorio, il cui fuoco non è meno intenso di quello infernale. Figuriamoci poi se questo dolore l’inferno ce lo facesse addirittura scampare.
Intendiamoci, questo non vuol dire che uno certe prove se le deve necessariamente andare a cercare; come facevano i santi del buon tempo andato che anelavano al martirio per essere sicuri di entrare al più presto e sicuramente in Paradiso. Soprattutto la malattia infatti è un evento che mette tutto il proprio essere alla prova e coinvolge anche chi ci sta accanto con effetti talvolta molto pesanti. Si pensi a quelle famiglie con un bambino malato di tumore o con un handicappato grave.
Per questo è bene lasciare al Signore decidere a chi tocca, soprattutto perché quando è Lui a caricarci di una croce sulle spalle mai la fa pesare più di quanto possiamo sopportare.
Soffrire può essere una grazia, dicevamo, perché ci fa scontare gli eventuali peccati e accorcia il tempo di attesa nell’anticamera per la felicità eterna, ma se uno non è un peccatore incallito da meritarsi una lunga, penosa e dolorosa malattia? Ebbene, siccome il modo più sicuro per guadagnarsi il paradiso è l’amore probabilmente il Signore vuole che le pene patite siano un dono per qualche sconosciuto che da questa sofferenza trarrà un qualche grande vantaggio, magari la conversione; e quale più grande dimostrazione d’amore per il prossimo che questa? E’ un biglietto in prima classe sul treno ad alta velocità e senza fermate intermedie per la salvezza eterna!
Talvolta il Signore è esigente – del resto non ci ha forse già messo in guardia sul fatto che la vita non è affatto rose e fiori? – e mette la croce sulle spalle non soltanto del singolo ma di tutti quelli che gli stanno accanto e gli vogliono bene. C’è da tremare al pensiero di quel che devono passare quelle famiglie in cui magari è un bambino ad ammalarsi gravemente, affrontando cure che sono un vero calvario per poi neppure riuscire a guarire. Anche per loro vale quanto sopra: più esercitano la virtù della carità, assistendo, amando e curando più ne avranno un immenso bene in vista dell’eternità.
Talvolta si bestemmia Dio perché, si dice, fa soffrire i bambini. Ma in quale ulteriore abisso di cattiveria precipiterebbe il mondo senza la pioggia di grazia che certe anime innocenti spargono su di esso con la loro sofferenza?
L’economia dell’amore, che regola il mondo della fede cristiana, è alquanto difficile da comprendere. Del resto è anche per questo che sta scritto che i cristiani vivono nel mondo ma non ragionano con le categorie del mondo.
Purtroppo di tutto questo molti preti non parlano più. Per alcuni di loro l’inferno neppure esiste e il paradiso è gratis a prescindere, quindi che senso ha soffrire per sfuggire a quello e guadagnarsi quell’altro? E così rimaniamo sempre più soli e disperati ad affrontare la malattia e la morte. E non comprendendone più il significato quando arriva il Satanasso travestito da parlamentare “progressista” che ci insollucchera con le “umanitarie” sorti dell’omicidio legalizzato del sofferente mediante eutanasia, eccoci belli e pronti a esprimere il nostro referendario “Si”.
Oppure ad accettare senza batter ciglio la serrata delle chiese e le limitazioni al culto a scopo umanitario e sanitario.