Shemà. Commento al Vangelo del 4 marzo della teologa Giuliva Di Berardino

Shemà (in ebraico “Ascolta”), un commento al Vangelo del Giorno di Giuliva Di Berardino.

Anche a noi, uomini e donne del terzo millennio, Nostro Signore Gesù Cristo dice: “Shemà”. Ascoltiamolo!

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IL COMMENTO TESTUALE

IL VANGELO DEL GIORNO: Lc 16,19-31

giovedì 4 marzo 2021

Oggi il vangelo ci svela ancora un altro inganno in cui cadiamo spesso nella nostra quotidianità: dare importanza alle cose, ai beni materiali e poca alle persone. Dico che cadiamo spesso su questo non perché ne abbiamo l’intensione, ma perché nel mondo in cui viviamo tutto ci spinge a questo tipo di comportamenti, fino a convincerci che essere ricco sia la condizione necessaria per valere qualcosa. Ecco allora il testo che oggi la liturgia ci propone è una parabola che racconta di un uomo senza nome, ma qualificato dalla ricchezza. La parabola mostra molto bene che la ricchezza è legata alla vanagloria, al farsi vedere, all’imporsi sugli altri, al potere. Non è il ricco in sé il problema, ma il sentirsi ricco di qualcosa rispetto agli altri e il cercare conferme per essere riconosciuto ricco dagli altri. E’ per questo che il protagonista di questa storia offre sempre feste e banchetti, ai quali non aveva mai partecipato un povero, che viveva proprio davanti alla porta della sua casa. Nonostante la Torah lo prevedesse e in certe occasioni lo ordinasse (cf. Es 23,11; Lv,19,10.15.18, ecc.), il ricco viveva questa situazione che a noi oggi sembra assurda, paradossale. Eppure, se ci riflettiamo, questa parabola è proprio un avvertimento  per ciascuno di noi. Quante volte viviamo di questo nostro bisogno di essere compiaciuti, di essere visti dagli altri, senza vedere noi per primi il bisogno degli altri. Ecco allora che il testo ci svela un segreto interessante: il ricco, bisognoso di riconoscimenti eccessivi, è solo un uomo, il povero invece ha un nome che lo  identifica: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, un nome che indica il suo destino, perché dopo la morte, subentrata per entrambi i due uomini, a dire che la morte non fa distinzione tra poveri e ricchi, il ricco finisce con le sue ricchezze, ma Lazzaro, il povero, viene portato dagli angeli nel Regno di Dio e partecipa al banchetto col padre dei credenti, Abramo. Dopo la morte, tutto viene invertito: Lazzaro passa dall’avere nulla all’avere tutto, mentre il ricco passa dall’avere troppo al non avere nulla e diventa mendicante. Allora oggi ringraziamo il Signore di averci lasciato questa parabola per ricordarci quanto i poveri possono essere preziosi per il Regno dei cieli. Siamo in un tempo di grazia, nei giorni della Quaresima, e possiamo riconoscere con umiltà davanti a Dio che non è facile guardare in faccia i poveri, non è facile capirli, perché essi dichiarano con la loro semplice presenza l’ingiustizia e l’incoerenza che sono anche nel nostro cuore, e che smascherano il nostro bisogno di sentirci ricchi. Cerchiamo allora oggi di andare incontro a chi ne ha bisogno, a rinunciare al nostro bisogno di sentirci ricchi. Una volta, leggendo un libro di Mons. Comastri dal titolo “Ho conosciuto una santa”, sul personaggio di Madre Teresa di Calcutta, ho letto questo aneddoto che voglio condividere con voi perché ci offre il senso della parabola che oggi meditiamo: La Madre mi ascoltò e fece qualche istante di silenzio. E poi mi fissò con dolcezza estrema e mi disse: «O mio caro vescovo, la vita è una sola: non è come i sandali che ne ho un paio di ricambio. La vita è una sola, io debbo spenderla tutta per seminare amore fino all’ultimo respiro. Ricordati che, quando moriremo, porteremo con noi soltanto la valigia della carità». Io ascoltavo e non avevo il coraggio di ribattere: il ragionamento della Madre seguiva perfettamente la logica dell’amore! Alla fine concluse: «Porteremo con noi soltanto la valigia della carità: riempila, finché sei ancora in tempo!». Queste parole mi risuonano dentro l’anima ogni mattina quando mi sveglio e ogni sera quando chiudo la giornata: «Ho messo qualcosa nella valigia della carità? Se non ho messo niente, ho perso inutilmente una giornata».”

Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco;ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

IL COMMENTO IN VIDEOhttps://www.youtube.com/channel/UCE_5qoPuQY7HPFA-gS9ad1g/videos

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