La coraggiosa battaglia contro il green pass di don Emanuele Personeni

di don Emanuele Personeni

LETTERA AI CRISTIANI DELLE PARROCCHIE E AI LORO PASTORI

Ho parlato quando la campagna vaccinale era già avanzata, troppo tardi non c’è dubbio. Avrei potuto forse risolvermi prima ma i fatti sono questi, ho continuato a tergiversare, a temporeggiare, a dirmi che se le politiche del governo in materia di covid-19 erano davvero così irragionevoli, allora le autorità ecclesiastiche avrebbero certamente preso le distanze; e che se non l’avevano ancora fatto significava che quelle politiche dovevano pur avere i loro motivi. Se poi il papa si era espresso in termini favorevoli, da prete avevo il dovere di fidarmi e obbedire. Prima o poi le ragioni si sarebbero chiarite, mi dicevo. Avevo deciso di farmi bastare i comunicati dalla curia. La parrocchia del resto meritava un pò di quiete.

La sospensione della liturgia pasquale, della catechesi, della frequentazione degli oratori insieme alla pratica sportiva aveva già depresso abbastanza la vita parrocchiale nel 2020. Serviva ripartire, agire, fare e organizzare. Qualcuno tra i preti veniva da isolamenti prolungati, da lutti personali, dal compito difficile di dover confortare senza essere confortato. C’era bisogno di lasciarsi alle spalle quei mesi difficili evitando di abbandonarsi a dietrologie e sofismi sul perché e sul per come delle politiche sanitarie. Si trattava di infondere fiducia, non sospetto, diffondere ottimismo non rabbia, raccontare soluzioni non problemi. In questa direzione andavano le raccomandazioni delle autorità tutte, senza eccezioni. Io ho cercato di svolgere il compito al meglio delle mie possibilità. Ma confesso che ho dovuto faticare non poco per mettere a tacere la mia coscienza.

Risuonavano in essa voci altre, punti di vista diversi, narrazioni divergenti che per quanto provassi a zittire stavano sempre lì. Non so dire se erano i regolamenti diocesani a non avere presa su di me o la mia coscienza ad averne troppa. Obbedienza e responsabilità che parevano tranquillizzare qualche mio collega, stavano davanti a me come argomenti barcollanti. Ho cercato di non contrapporre all’obbedienza il principio della mia coscienza. So bene che la de-responsabilizzazione può nascondersi dietro il ricorso materiale al principio dell’obbedienza quanto l’arbitrio soggettivo può nascondersi dietro quello della coscienza. Il fatto é che non potevo relegare le voci dissonanti nel coro dell’anti-scienza e del cicaleccio paesano. Confinare preventivamente l’avversario nel campo dell’idiozia mi é sempre parso un modo vile di abbandonare il campo.

Se le voci sono infondate bisogna mostrarlo attraverso un confronto aperto, libero e informato. Trattandosi poi di questione assai grave, la salute delle persone, sentivo che il dibattito doveva essere incoraggiato non impedito. Per quanto ne capissi poco intuivo che un fenomeno pandemico di livello mondiale doveva per forza consistere in qualcosa di complesso e articolato.

L’idea della “vaccinazione quale unica soluzione per uscire dalla pandemia” mi appariva troppo semplice per non essere semplicistica e le teorie dei suoi sostenitori troppo uniformi e perentorie per non apparire sospette. A far tracimare le mie perplessità prima ancora dei contenuti sono stati i tempi. Non si era ancora usciti dallo stordimento che si era abbattuto sulla nostra città di Bergamo che già la televisione a reti unificate aveva preso ad annunciare giorno dopo giorno che la soluzione era stata trovata: i vaccini avrebbero immunizzato tutti.

Da ingenuo mi chiedevo se accanto ai vaccini che ancora non c’erano, quei mesi terribili non avessero insegnato qualcosa di più sul virus e su come affrontarlo. E se non fosse stato il caso di promuovere la cosa più naturale che gli uomini hanno imparato a fare quando qualcuno si ammala di qualcosa: curarsi. Avevo allora sentito parlare di cure domiciliari precoci e non capivo la ragione per cui dalla televisione, dai giornali e da molti social giungesse una scomunica tranciante sulle persone che dichiaravano, dati alla mano, l’efficacia di tali cure. La severità della condanna a quelle che venivano derise come strampalate teorie antiscientifiche ottenne in me l’effetto opposto a quello desiderato dai suoi propagatori. Accrebbe il mio interesse, acuì la mia curiosità e mi spinse a vederci più chiaro.

Nel frattempo in parrocchia la vita é andata avanti. Preti e operatori pastorali hanno cercato di tenere vivo come hanno potuto i servizi essenziali adottando soluzioni creative e innovative. Si é cercato di tenere in vita la vita. Ma inutile nasconderselo: il clima di paura non é affatto diminuito. Ad esacerbarlo é stata la polarizzazione mediatica tra le posizioni vacciniste e la variegata sfera dei divergenti, sommariamente raccolti sotto l’etichetta no-vax. Francamente non capivo perché bisognasse considerare alla stregua di no-vax, senza un minimo distinguo, urlatori di piazza e medici che fin dal marzo 2020 non avevano mai abbandonato i loro pazienti e continuavano a prendersene cura invitando il Ministero a promuovere accanto alla vaccinazione anche le cure. Perché demonizzarli?

A far tracimare il vaso della mia coscienza é stata però la decisione di sospendere dal lavoro i medici che rifiutavano l’obbligo vaccinale. Ma come! mi son detto, in piena emergenza sanitaria?! Con una medicina territoriale già devastata da anni di privatizzazioni e riduzione dei finanziamenti pubblici, lo Stato non trova di meglio che costringere a incrociare le braccia medici che stavano sul campo a curare le persone!? Non bastava chiedere ai medici non-vaccinati l’utilizzo scrupoloso dei presidi quali mascherina e distanziamento per affrontare razionalmente quella che viene descritta come “enorme pressione sugli ospedali…”? In parrocchia non ho avvertito particolare insofferenza rispetto a questi provvedimenti. Rassegnazione? Stanchezza? Voglia di uscirne in un modo o nell’altro?

Da quanto ne so, preti e operatori pastorali hanno cercato di combinare l’attuazione delle norme e un certo grado di ospitalità come Dio comanda al meglio delle loro possibilità. É stato inevitabile tuttavia che pressati dalle normative, schiacciati dalla paura della gente, nutriti da dosi enormi di avversione televisiva, anche in parrocchia i toni siano talvolta trascesi e i riguardi più normali abbiano ceduto il posto all’applicazione gelida delle norme. E le persone si siano sentite a volte trattate male, accusate, escluse, non rispettate, aggredite, dimenticate. Inevitabile poi che da responsabile del servizio d’ordine, qualche parrocchiano si sia lasciato prendere la mano adottando stili direttivi più consoni a un posto di blocco che non ad una celebrazione eucaristica e ad uno spazio comunitario. Talvolta mi pareva che non fosse possibile evitare di ferire qualcuno.

Se ligio alla norma incontravo il disappunto di coloro che almeno in Chiesa speravano di trovare un pò di requie dall’assillo quotidiano del distanziamento sociale e dell’igienizzazione. Se flessibile e tollerante mi é capitato di venir fulminato da chi soprattutto in Chiesa si aspettava ordine e sicurezza. E che dire dei sensi di colpa che si sono diffusi a macchia d’olio a seguito delle parole delle autorità? Non sarebbero un problema sociale i sensi di colpa se non fosse che ad essi corrisponde un simmetrico senso di giustizia che accompagna coloro che si conformano, senso che si traduce facilmente in giudizio quando non in aperta condanna. Che dire poi della sofferenza di chi si é assunto il rischio della vaccinazione credendo di fare un’azione a vantaggio di tutti? E di chi si é vaccinato poiché costretto dalle circostanze, per non perdere il lavoro, per poter continuare a mantenere i figli, per continuare a vedere gli amici e a fare sport, per poter entrare nelle RSA a trovare i propri cari, per non subire linciaggi morali ogni tre per due? E che dire delle sofferenza di chi si é visto liquidato dal sacerdote con uno whatsapp generico che ricordava a tutti gli operatori pastorali che da quel momento in poi i non vaccinati non sarebbero più stati ammessi al servizio pastorale? E di chi ha perso il lavoro e lo stipendio per sentirsi dire in Chiesa che i non vaccinati erano degli irresponsabili e degli egoisti? E di chi si é visto rispedito indietro il figlio dalle iniziative oratoriali poiché privo di Green-pass? Queste cose hanno ferito profondamente le persone, hanno aperto lacerazioni serie nel tessuto fiduciale delle comunità parrocchiali e hanno inferto un serio colpo alla fraternità costruita in lunghi anni di vita, fede e amicizia.

É necessario che le parrocchie si facciano carico di questa sofferenza diffusa. Che ciascuno abbia la possibilità di raccontare la propria paura, la propria rabbia e sia aiutato ad ascoltare la paura e la rabbia degli altri. E per questo si aprano appositi spazi di ascolto e non-giudizio. E che se ci sono stati errori, sopravvalutazioni, sottovalutazioni, mancanza di attenzione, involontarie durezze, indifferenza per le conseguenze umane dell’applicazione cieca di norme talora irragionevoli…ebbene che chi di dovere lo riconosca e possa chiedere perdono anche in parrocchia. Per poter fare questo é però necessario che venga riconosciuto il diritto/dovere di parlare e denunciare quanto di eventualmente ricattatorio e antiscientifico venisse propagandato, anche dal governo. Ed é proprio quello che ho fatto io, ho parlato e ho denunciato.

Ma non diversamente dalle università, dal sindacato, dalle redazioni dei quotidiani, dalle aziende e perfino dal parlamento, ho dovuto prendere atto che anche la parrocchia é talora luogo dove criticare i provvedimenti governativi in materia di covid non é (per ora) ammesso e chi lo fa é automaticamente catalogato come cattivo maestro e irresponsabile, uno che deve vergognarsi, soprattutto se veste il ruolo di parroco o coadiutore. Da prete ultra-cinquantenne non vaccinato mi ritrovo doppiamente fuori posto. Non ho scampo: se voglio parlare devo svestire i “panni” del prete di parrocchia ma la buona notizia, quella voglio continuare a portarla: l’umanità é creata in Cristo, libera, intelligente e responsabile. Ed é perdonata per i suoi peccati. Fa parte della buona notizia denunciare l’inefficacia, la pericolosità e l’insostenibilità scientifica di molti provvedimenti governativi, come la vaccinazione dei bambini, tanto per dirne una. E denunciare l’ingiustizia di chi é privato del diritto al sostentamento per dirne un’altra. Neanche agli uomini e alle donne reclusi del 41-bis si riserva un trattamento del genere.

Dire NO a cose come queste, riconoscere gli errori e opporsi a chi li sta compiendo, quale che sia il disegno con cui continua pervicacemente a compierli, é tappa necessaria del compito più grande di dire SI al fondamento sacro della comune umanità, sacro e pertanto indisponibile a manipolazioni ideologiche e biologiche di sorta; SI all’applicazione della Costituzione, alla ragionevolezza, alla scienza, al rinforzo del sistema immunitario, alla libertà di cura, a un’educazione complessiva all’altezza dell’umanità di Gesù; SI alla riconciliazione nella verità e nella carità.

É per testimoniare questa verità in spirito di carità che ho deciso di intraprendere un pellegrinaggio lungo l’Italia, di parrocchia in parrocchia, fino a raggiungere Roma e consegnare al papa la lettera destinata a lui e che invito a sottoscrivere.

Non rappresento nessuno, soltanto me stesso. Mi assumo in toto la responsabilità di quanto ho scritto. Spero serva ad accendere in parrocchia un confronto franco e rispettoso.

Farò il pellegrinaggio a piedi e in bicicletta, anche per solidarietà con chi é privato del diritto di utilizzare mezzi pubblici perché colpevole di esercitare un diritto costituzionalmente garantito.

Infine invito i preti e i parrocchiani a dire NO alla discriminazione in parrocchia di chi non é vaccinato, a costo di sospendere le iniziative pastorali che ne prevedono obbligatoriamente l’applicazione o trovando soluzioni alternative.

In secondo luogo, fatta salva la libertà di ciascuno di vaccinarsi, invito a non applicare le regole che costringono gli operatori pastorali a vaccinarsi, pena la sospensione dal servizio.

 

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