Oggi inizia il Triduo pasquale, vertice di tutto l’anno liturgico

di Giuliva Di Berardino

IL GIOVEDÌ SANTO ENTRA NEL TRIDUO PASQUALE A COMINCIARE DALLA SERA, CIOÈ NEL­L’ORA IN CUI DEVE ESSERE CELEBRATA LA MESSA VESPERTINA IN COENA DOMINI, CIOÈ IN MEMORIA DELLA CENA DEL SIGNORE.  FINO A QUEL MOMENTO, IL GIOVEDÌ SANTO APPARTIENE AN­CORA ALLA QUARESIMA

Le Norme generali sull’anno liturgico indicano con gran­de chiarezza il momento in cui comincia il Triduo pasquale e parlano esplicitamente della Messa vespertina nella Cena del Signore (Norme Generali per l’Ordinamento dell’Anno Liturgico e del Calendario, n. 19), dopo aver indicato il Triduo pasquale come vertice di tutto l’anno liturgico.

“Il triduo della Passione e della Risurrezione del Signore risplende al vertice dell’anno liturgico, poiché l’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio è stata compiuta da Cristo specialmente  per mezzo del suo mistero pasquale, con il quale, morendo, ha distrutto la nostra morte, e risorgendo, ci ha ridonato la vita. La preminenza di cui gode la Domenica nella settimana, la gode la Pasqua nell’anno liturgico” (Norme Generali per l’Ordinamento dell’Anno Liturgico e del Calendario, n. 18). E ancora si commenta: “La principale «memoria sacra» con cui la Chiesa, in giorni determinati nel corso dell’anno, celebra l’opera della salvezza di Cristo, è la «memoria» settimanale e annuale del mistero pasquale… L’intero svolgimento del mistero di Cristo nel corso dell’anno, dalla sua incarnazione e nascita fino alla sua venuta gloriosa, culmina in questa doppia celebrazione, settimanale e annuale, della Pasqua” (Commento alla riforma dell’anno liturgico, I).

In realtà queste parole lasciano emergere un sapiente equilibrio fra la tradizione propriamente liturgica, che consi­derava come giorni del Triduo pasquale solo il venerdì e il sa­bato santo e la domenica di Pasqua, e la pietà non liturgica, che non parlava di Triduo pasquale, ma di Triduo sacro, indicando con questo nome i giorni del giovedì, del vener­dì e del sabato santo, nonostante anche la domenica di risurrezione fosse ritenuta parte del Triduo sacro perché, secondo ciò che afferma Sant’Ambrogio, è parte di quel tempo «in cui Cristo soffre, riposa nel sepolcro e risuscita».

Secondo le norme attuali della liturgia, il Giovedì Santo entra nel Triduo pasquale a cominciare dalla sera, cioè nel­l’ora in cui deve essere celebrata la Messa vespertina in Coena Domini, cioè in memoria della Cena del Signore. Fino a quel momento, il giovedì santo appartiene an­cora alla Quaresima.

La Tradizione Romana antica, più o meno fino al VII sec., non conosce un giovedì santo come lo celebriamo noi oggi, ma conosce solo la celebrazione della riconciliazione dei penitenti. Prima del VII secolo a Roma non si trova nessun accenno alla celebrazione della messa in Coena Domin. I primi cristiani celebravano nella Notte Santa, cioè nella grande veglia pasquale, la liturgia battesimale che comprendeva anche la liturgia eucaristica, come Eucaristia di Pasqua, come comunione dei credenti con il Cristo Risorto. Nelle altre Chiese, soprattutto le prime chiese cristiane sorte in Africa del Nord, secondo le testimonianze che ci offre Sant’Agostino vescovo, abbiamo alcuni accenni di due messe il giovedì santo, ma sicuramente non c’era una prassi liturgica unica per tutte le località della cristianità antica. Un certo sviluppo avviene a partire dal VII sec. quando si attesta la celebrazione invece di tre messe il giovedì santo: la prima per la riconciliazione dei penitenti, la seconda per la consacrazione degli oli per l’amministrazione dei sacramenti, celebrata verso mezzogiorno, e la terza che veniva celebrata la sera e che includevano nel suo interno due riti che pian piano verranno sempre più considerati. Mentre la seconda che la terza Messa non avevano la Liturgia della parola, ma iniziavano direttamente con l’offertorio, la terza messa includeva i due riti che ancora oggi troviamo inseriti nella Messa in coena Domini: la lavanda dei piedi e l’adorazione eucaristica.

Il rito della lavanda dei piedi proviene sicuramente dalla Chiesa di Gerusalemme, dato che le prime testimonianze di questo rito risalgono al V sec. ed esprimevano non tanto l’umiliazione di Cristo, ma il suo mandato, secondo quanto scrive il Vangelo: «affinché come ho fatto io, facciate anche voi.» (Gv 13,15) – non umiliazione dunque, ma amore e servizio, gli uni degli altri. Il gesto è stato poi ripreso particolarmente dalla tradizione monastica, ma più in riferimento all’accoglienza degli ospiti. Nella liturgia, come è stato detto, entra solo verso il VII sec., tanto che il concilio di Toledo del 694 lo considera come un gesto rituale semi-liturgico. Solo più tardi, attraverso la diffusione liturgica prolungata nel tempo, il gesto rituale della lavanda dei piedi inserito nella liturgia del giovedì santo assunse un significato diverso da quello originario del mandato di Cristo affidato ai credenti, cioè quello dell’umiliazione di Cristo, anticipo della sua passione. È infatti noto che Sant’Ambrogio colleghi la lavanda dei piedi al battesimo, tanto che qualche  studioso avanza l’ipotesi, che, specie nella tradizione giovannea, il lavare i piedi come atto rituale corrisponda al gesto stesso del battesimo in alcune comunità, ma è vero che questa ipotesi oggi resta ancora poco sostenibile. In ogni caso a Roma viene introdotto il rito della lavanda dei piedi solo dopo l’arrivo del Pontificale Romano – Germanico, redatto tra il 950 e il 962 e tuttavia è attestato che questo rito non era inserito nella messa, ma nei vespri, dato che era considerato un rito semi-liturgico già dal Concilio di Toledo, come detto sopra.

Per quanto riguarda invece il rito della deposizione del Santissimo e dell’adorazione eucaristica, che oggi troviamo alla fine della Messa in coena Domini,  anch’esso è assai antico. Ne troviamo menzione infatti nell’ Ordo Romanus Primus, in cui si attesta che le specie consacrate rimanenti dalla celebrazione dell’eucaristia venissero conservate, dopo la celebrazione, in un cofanetto apposito della sacrestia, ma senza particolari segni di onore. Solo il giorno seguente venivano riportate al pontefice nel presbiterio, perché venissero usate per la comunione. A questo punto ci si può chiedere: da dove viene l’adorazione eucaristica che oggi viene fatta la sera del giovedì santo e protratta, in alcune parrocchie o in alcune comunità, fino alla mattina del venerdì santo? Se nell’antichità le specie venivano semplicemente conservate in sacrestia, senza nessun segno di onore, fu solo dal XIII sec., dopo che Urbano IV estese a tutta la Chiesa la festa del Corpus Domini, una festa che è stata originata dalle visioni mistiche di una donna di grande cultura e di grande carisma: suor Giuliana di Liegi, monaca agostiniana vissuta nella prima metà del XIII secolo, priora del convento di Mont Cornillon, in Belgio, una figura interessante che ha ottenuto, nel 1246, da parte del vescovo di Liegi la convocazione di un concilio nel quale venne ordinata, a partire dall’anno successivo, la celebrazione della festa del Corpus Domini, dato che all’epoca i vescovi avevano la facoltà di istituire festività all’interno delle loro diocesi. Di lì a poco, la festa venne riconosciuta in tutto il mondo cattolico, anche a causa dei numerosi miracoli eucaristici che andavano diffondendosi in Italia e in altri paesi. Fu da quegli anni che anche il semplice tabernacolo provvisorio del Giovedì santo divenne punto focale della devozione eucaristica che fissava nel Giovedì Santo il giorno dell’istituzione. Così, nel contesto liturgico del giovedì santo, con tutti i segni di tristezza e con l’emotività che genera l’imminente ricordo della Passione del Signore, il tabernacolo divenne “il sepolcro”, anche se, in effetti, non si era ancora celebrata la morte di Gesù! La questione diventa quindi complessa, ma in linea generale oggi si cerca di ricondurre l’adorazione eucaristica direttamente in collegamento con il mistero stesso della Pasqua, in modo da non dare un eccessivo accento dell’adorazione, che stacca dalla tradizione antica della custodia eucaristica nel tabernacolo perché presenza del Signore risorto nella comunità, rischiando di falsare la celebrazione.

Il giovedì santo è seguito dalla feria sesta della Passione del Signore, nome liturgico del Venerdì santo. Secondo una tradizione antichissima, la Chiesa non celebra l’Eucaristia né in questo giorno, né nel seguente. Solo a cominciare dal secolo VII, infatti, si distribuisce la comunione durante le celebrazioni di questi giorni santi, e questa prassi di distribuire la comunione senza la celebrazione propriamente eucaristica venne adottata probabilmente per imitazione della liturgia bizantina, che distribuiva il pane eucaristico il venerdì. Nella liturgia latina antica, infatti, non veniva celebrata l’Euca­ristia nei giorni del mercoledì e del venerdì.  A questo punto ci si può chiedere: perché ancora ai nostri giorni non viene celebrata la santa Messa proprio nel gior­no in cui la Chiesa commemora la passione e la morte del Signore? La risposta può essere duplice: da una parte perché, come abbiamo detto, la tradizione antichis­sima e unanime delle liturgie celebravano l’Eucaristia solo nella notte santa della Pasqua, dato che la Messa vespertina del gio­vedì santo ha avuto un rilievo straordinario solo a partire dal secolo XIII. Dall’altra, c’è l’intenzione più autentica della litur­gia di celebrare il mistero pasquale non come un anniversa­rio storico, ma soprattutto come un memoriale sacramentale, e perciò non in modo frammentario, ma nella totalità del mistero.

Il sabato santo, allora, è sì un giorno liturgico, ma di si­lenzio e di meditazione (e nell’antichità, anche di digiuno!) fino alla notte, quando inizia la veglia pasquale, che è poi il vero momento culminante del Triduo sacro.

La veglia pasquale, durante la notte in cui Cristo è risorto, è considerata come la «madre di tutte le veglie» (Sant’Ago­stino, Disc. 219). In essa la Chiesa attende, vegliando, la ri­surrezione di Cristo e la celebra nei sacramenti. Le Norme Generali del Messale Romano richiedono che l’intera celebrazione di questa sacra veglia sia svolta di not­te, cosicché o cominci dopo l’inizio della notte o termini pri­ma dell’alba della domenica (NG 21).

Certamente poi è possibile introdurre adattamenti, sempre secondo il buon senso dei parroci o dei responsabili delle celebrazioni, ma è vero che la veglia pasquale è comunque considerata parte della stessa domenica di PasquaRi­surrezione del Signore, dato che nella liturgia la sera che precede una festa o una solennità è detta prefestiva ed è inserita, quindi nel giorno stesso della festa. Il giorno della Pasqua dunque, la Chiesa convoca i fedeli per una duplice celebrazione eucaristica: quella che avviene nel corso della veglia notturna e quella del giorno pro­priamente detto. La domenica di Pasqua, che è anche il terzo giorno del Triduo pasquale, inaugura un tempo di gioia e di festa che dura per cinquanta giorni: il tempo che la liturgia chiama tempo di Pasqua. I primi otto giorni di questo periodo, che costituiscono l’ottava di Pasqua, formano invece, con la domenica di risurrezione, un solo e identico « giorno » e sono celebrati come solennità del Signore (cfr. NG 24).

IL GIOVEDI’ SANTO – CENA DEL SIGNORE

La Messa vespertina nella Cena del Signore ha, come ab­biamo visto, il carattere d’introduzione al Triduo pasquale, d’entrata nella commemorazione annuale della Pasqua. Le rubriche del Messale fanno notare l’importanza di questa ce­lebrazione eucaristica e pasquale, ricordando che sono proi­bite tutte le Messe senza presenza di popolo, perché l’intera comunità locale coi suoi sacerdoti e ministri partecipi all’Eu­caristia vespertina. In caso di vera necessità, l’Ordinario del luogo può permettere la celebrazione di un’altra Messa per i fedeli che non possono in nessun modo prendere parte al­l’assemblea principale. La Liturgia delle Ore sopprime i Ve­spri di questo giorno per coloro che assistono alla Messa nella Cena del Signore. Sono stati rafforzati il senso ecclesiale, eu­caristico e sacerdotale, non meno che quello pasquale. Il significato della celebrazione è contenuto espressamen­te nella colletta:

O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la santa Cena, nella quale il tuo Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chie­sa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amo­re, fa’ che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita.

Le letture evocano il gesto fondamentale di Gesù che, con l’istituzione dell’Eucaristia, si consegna alla morte per la sal­vezza degli uomini. Con questa consegna di sé, il Signore com­pì il rituale della vecchia Pasqua giudaica, istituita da Mosè (Es 12,1-8.11-14:1 lett.), offrendo il suo corpo in luogo del­l’agnello e il suo sangue per suggellare la nuova e definitiva alleanza (1Cor 11,23-26: II lett.). Ma il gesto di Gesù rac­chiude in sé anche la prova dell’infinito amore di chi dà la vita per gli altri: « Li amò sino alla fine », dice il Vangelo (Gv 13,1-15) prima di narrare la grande lezione d’umiltà e di servizio che Gesù volle unire al suo memoriale: la lavanda dei piedi dei suoi discepoli. Quando ricorda questi gesti, la Chiesa è cosciente del man­dato del Signore di perpetuare la sua memoria rendendo pre­sente la sua oblazione nell’Eucaristia, poiché, « ogni volta che celebriamo questo memoriale del sacrificio del Signore, si compie l’opera della nostra redenzione» (Sulle off.). La co­scienza di compiere il mandato di perpetuare il sacrificio dell’eterna alleanza fa dire al sacerdote nel momento culminante della preghiera eucaristica: Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presen­tiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia, nel giorno in cui Gesù Cristo nostro Signore affidò ai suoi discepoli il mi­stero del suo corpo e del suo sangue, perché lo celebrassero in sua memoria… In questo giorno, vigilia della sua passio­ne, sofferta per la salvezza nostra e del mondo intero, egli prese il pane…

L’altro gesto di Gesù, che non ha un valore sacramentale, ma di testimonianza — « vi ho dato l’esempio» — può esse­re ricordato in un modo plastico mediante il rito del cosid­detto mandato, cioè della lavanda dei piedi, mentre è cantata l’antifona: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi, dice il Signore » (Gv 13,34). Il rito fa ricordare un altro grande tema di questo gior­no: il precetto della carità fraterna. La santa Messa termina col trasporto solenne del Santissimo Sacramento al luogo della reposizione per la comunione del giorno seguente. È il momento dell’adorazione eucaristi­ca che, oggi, ci si presenta in una chiarissima dipendenza dalla celebrazione della Messa. Il Messale invita i fedeli a dedicare qualche parte della notte all’adorazione, secondo le circostan­ze e le usanze di ogni luogo, raccomandando che, dopo la mezzanotte, scompaia la solennità.

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