Il fallimento della pace? La guerra e la distruzione dei popoli…

di don Gian Maria Comolli*

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA COME PROGETTO PER RIFORMARE LA SOCIETÀ: LA GUERRA È UN FALLIMENTO, MA LA LEGITTIMA DIFESA RIMANE UN DIRITTO/DOVERE TANTO DEI SINGOLI QUANTO DELLE COMUNITÀ

Il capitolo undicesimo del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (2 aprile 2004) presenta un’interessante riflessione sulla guerra, tema attuale a fronte dell’invasione in corso della Repubblica dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, ma anche dello svolgersi nel silenzio mediatico di molte altre guerre che si stanno combattendo nel mondo.

La Dottrina sociale condanna ovviamente la guerra e, riferendoci ai vari documenti del Magistero, la definisce: “flagello”, “avventura senza ritorno”, “fallimento di ogni autentico umanesimo” e “sconfitta dell’umanità”. Tutto perché la guerra compromette il presente e mette a rischio anche il futuro dell’umanità, provocando come dice il Compendio DSC danni non solo materiali ma anche morali (cfr. n. 497).

Innumerevoli sono stati negli anni gli appelli dei Pontefici in tal senso. Riportiamo quello lanciato da Papa Francesco poco dopo l’inizio della guerra russo-ucraina. Ai belligeranti il Santo Padre si è rivolto, fra l’altro, così: «di fronte alle immagini strazianti che vediamo ogni giorno, di fronte al grido dei bambini e delle donne, non possiamo che urlare: “Fermatevi!”. La guerra non è la soluzione, la guerra è una pazzia, la guerra è un mostro, la guerra è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto! Di più, la guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. Sì, la guerra è un sacrilegio!» (Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace, Solferino libri, Milano 2022, Introduzione).

Talora la difesa e la tutela della pace, però, come dimostra la storia, può presentarsi come obiettivo irrealizzabile. Quando insorge ad esempio il rischio dell’assoggettamento, dell’asservimento e della subordinazione della nazione più debole a quella più forte. Ecco allora l’importanza delle Organizzazioni internazionali e regionali che, secondo l’auspicio del Compendio DSC, dovrebbero «essere in grado di collaborare per far fronte ai conflitti e favorire la pace, instaurando relazioni di fiducia reciproca capaci di rendere impensabile il ricorso alla guerra» (n. 499).

La più rilevante di queste organizzazioni, come noto, sono le Nazioni Unite che, a partire dalla loro fondazione a San Francisco (Stati Uniti) nell’ottobre 1945, hanno tentato non sempre con successo di estinguere conflitti o intermediare situazioni specifiche di guerra. Con il trascorrere dei decenni, però, l’ONU ha smarrito progressivamente la sua autorevolezza nel contesto internazionale, fino a mostrare una pratica assenza e poi insignificanza nell’evolversi del conflitto tra Russia e Ucraina.

Ritornando alla Dottrina sociale, essa condanna sempre e comunque la guerra di aggressione, giudicando invece un male minore quella intrapresa per un’esigenza di “legittima difesa”. I responsabili degli Stati eventualmente aggrediti, infatti, mantengono «il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza delle armi» (Compendio DSC, n. 500). La legittima difesa, in effetti, sia a livello individuale sia collettivo, rimane una esigenza imposta dall’esistenza del peccato originale e, di conseguenza, dallo scatenarsi, talvolta, della follia umana.

Difendersi è un’esigenza moralmente approvabile, seguendo però scrupolosamente alcune condizioni, consapevoli dell’immenso onere che queste azioni comportano e delle imprevedibili conseguenze dovute alla potenza dei moderni mezzi di distruzione di massa.

Ecco i criteri che, per l’esercizio – anche militare – della legittima difesa indica la Dottrina sociale:

  1. il danno causato dall’aggressore a una determinata nazione deve essere inequivocabile, durevole e rilevante;
  2. tutti gli altri strumenti (dialogo, intermediazioni, trattative etc.) per prevenire le ostilità si sono rivelati impraticabili o inefficaci;
  3. si devono presumere ragionevoli condizioni per il successo nell’esercizio della forza;
  4. il ricorso alle armi non deve provocare danni e disordini maggiori rispetto ai crimini da combattere (cfr. Compendio DSC, n. 500).

La valutazione di queste circostanze è una enorme responsabilità che si assumono i governanti ed i responsabili delle Forze armate di una nazione. In definitiva, gli aggrediti possono ricorrere alle armi, ma ogni Stato deve operare per garantire la pace, non unicamente sul proprio territorio, ma ovunque abbia la possibilità di fare, senza dimenticare che «altro è ricorrere alle armi perché i popoli siano legittimamente difesi, altro voler soggiogare altre nazioni» (n. 500).

Pure la Carta della Nazioni Unite, scaturita da una tragedia senza eguali come la Seconda Guerra Mondiale, è alquanto cauta sulla possibilità del ricorso alla forza per risolvere le contese tra gli Stati. Con due eccezioni: «la legittima difesa e le misure prese dal Consiglio di Sicurezza nell’ambito delle sue responsabilità per mantenere la pace» (Compendio DSC, n. 501).

In ogni circostanza, comunque, l’esercizio del diritto della difesa deve considerare «i tradizionali limiti della necessità e della proporzionalità» (n. 501).

Il Compendio DSC prende in considerazione anche quella che definisce «l’azione bellica preventiva». Qui, molto probabilmente, i redattori del 2004 si riferivano alla strategia adottata dal presidente degli Stati Uniti George Bush Jr. dopo l’attentato al World Trade Center di New York nel settembre del 2001. Coniando la dottrina della “guerra preventiva”, Bush conquistò infatti l’Afghanistan con lo scopo di annientare l’organizzazione terroristica al-Qāʿida e di catturarne il capo Osama Bin Laden, responsabile dell’attentato delle Torri Gemelle e invase l’Iraq con attacchi mirati a evitare l’uso di armi di distruzione di massa da parte del dittatore Saddam Hussein. Il Compendio, però, non concorda con questa “dottrina”, poiché autorizza fondamentalmente azioni belliche «senza prove evidenti che un’aggressione stia per essere sferrata […]. Pertanto, solo una decisione dei competenti organismi, sulla base di rigorosi accertamenti e di fondate motivazioni, può dare legittimazione internazionale all’uso della forza armata, identificando determinate situazioni come una minaccia alla pace e autorizzando un’ingerenza nella sfera del dominio riservato di uno Stato” (n. 501).Che la salvaguardia della pace esiga anche una legittima difesa operata tramite le Forze armate (cfr. Compendio DSC, n. 502), è ribadito anche dalla Costituzione Italiana che, all’articolo 11, afferma che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». La nostra Carta fondamentale prevede quindi il ricorso allo strumento militare quando sia in questione di garantire la difesa della libertà e la tutela della pace in campo internazionale. Per questo è autorizzata, ad esempio, la partecipazione italiana a forze multinazionali nell’ambito delle “missioni umanitarie e di pace” (cfr. n. 502).

Il Compendio aggiunge, a tal proposito, che ogni militare:

  • «è concretamente chiamato a difendere il bene, la verità e la giustizia nel mondo» (n. 502);
  • «è moralmente obbligato ad opporsi agli ordini che incitano a compiere crimini contro il diritto delle genti e i suoi principi universali» (n. 503);
  • «rimangono pienamente responsabili degli atti che compiono in violazione dei diritti delle persone e dei popoli o delle norme del diritto internazionale umanitario» (n. 503).

Pertanto, anche in un “esercito di pace”, non tutte le richieste devono essere soddisfatte. Nonostante i principi di cui sopra, il Compendio ribadisce il diritto del singolo cittadino all’“obiezione di coscienza” al servizio militare obbligatorio. Chi compie questa scelta, però, al fine di evitare che la trasformi in una scorciatoia o in una forma di opportunismo, «deve essere disponibile a svolgere altri tipi di servizio» per la comunità o per lo Stato (cfr. n. 503).

Quando la popolazione civile è trasformata in obiettivo bellico, o massacrata o estromessa dal proprio territorio o sottoposta a pulizia etnica, il diritto all’uso della forza per scopi di legittima difesa è motivato dal dovere di proteggere ed aiutare le vittime innocenti impossibilitate a difendersi dall’aggressione (cfr. n. 504).

Questa responsabilità dovrebbe essere in carico “in primis” dalla Comunità internazionale, che dovrebbe promuovere nel caso iniziative concrete per disarmare l’aggressore (cfr. 506). Ovviamente, le misure adottate vanno attuate nel totale rispetto del diritto internazionale e fondate sull’uguaglianza tra gli Stati.

Contro chi minaccia o intraprende un conflitto aggredendo altri Paesi o pratica gravi forme di oppressione nei confronti della popolazione, come forza persuasiva per evitare un attacco, o per interrompere evidenti violazioni dei diritti umani, o per intraprendere trattative di riconciliazione, è legittimo attuare delle misure di dissuasione come le “sanzioni internazionali”. Serve però porre attenzione che ogni tipologia di sanzione non costituisca uno strumento di punizione diretto contro un’intera popolazione. Queste, infatti, andrebbero adottate con ponderatezza e sottoposte a rigidi criteri giuridici ed etici, prevedendone in ogni caso una durata limitata nel tempo (cfr. n. 507).

Altra cautela per salvaguardare la pace è il disarmo. L’enorme incremento delle armi rappresenta una minaccia per la sicurezza dei popoli. Di conseguenza, sia l’accumulo che la commercializzazione non sono legittimati moralmente. Da qui l’invito della Dottrina Sociale ad un percorso di «disarmo generale, equilibrato e controllato» (n. 508). Ogni Nazione, secondo il “principio di sufficienza”, dovrebbe possedere unicamente gli strumenti essenziali per la propria legittima difesa.

La Dottrina sociale non condivide la logica della “deterrenza”, cioè il reputare che un buon armamento possa dissuadere ogni possibile aggressore. Afferma in proposito il Compendio: «l’accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Costoro vedono in esso il più efficace dei mezzi atti ad assicurare la pace tra le nazioni. Riguardo a tale mezzo di dissuasione vanno fatte severe riserve morali. La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall’eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle» (n. 508).

Dello stesso parere è Papa Francesco che, subito dopo lo scoppio di una nuova guerra nel cuore dell’Europa (Ucraina), ha ammonito sull’immoralità di spendere «decine, centinaia di miliardi per il riarmo, per dotarci di armamenti sempre più sofisticati, per accrescere il mercato e il traffico delle armi che finiscono per uccidere bambini, donne, vecchi […], quando invece tutti i nostri sforzi si sarebbero dovuti concentrare sulla salute globale e nel salvare vite umane dal virus» (Contro la guerra…, op. cit., Introduzione).

Responsabilità ancora maggiori «davanti a Dio e all’umanità intera» (Compendio DSC, n. 509) sono in capo a quegli Stati od organizzazioni militari e paramilitari che detengano armi di distruzione di massa di tipo biologico, chimico o nucleare.

Secondo il Compendio, però, oltre a questi strumenti indifferenziati di morte, una interdizione assoluta dovrebbe essere riservata anche alle mine antipersona (cfr. n. 510), un obiettivo perseguito ad esempio dalla campagna internazionale in atto per il bando delle mine antipersona, la cui fondatrice Jody Williams è stata insignita del premio Nobel per la pace 1997.

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*sacerdote ambrosiano, collaboratore dell’Ufficio della Pastorale della Salute dell’arcidiocesi di Milano e segretario della Consulta per la Pastorale della Salute della Regione Lombardia. Cura il blogwww.gianmariacomolli.it.

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