San Paolo e il rapporto con la Legge

di Pietro Madeo

PER SAN PAOLO LA LEGGE È IL PEDAGOGO CHE CI HA GIÀ CONDOTTI A CRISTO

Quando Paolo, poco dopo il 50 d.C., spinto dalle molteplici necessità del suo stesso ministero cominciava con la lettera ai Galati a dare sistemazione organica al proprio pensiero, meditando sulla storia eccezionale del suo popolo e sulla esperienza unica della sua vita, portava a formulazione chiara un dramma del pensiero ebraico derivante dalla coesistenza contraddittoria di alcuni elementi della sua ideologia, i quali tuttavia risultavano tutti e da tempo bene affermati nella coscienza della gente ebraica: da un lato l’onnipotenza divina sempre più sottolineata con lo scorrere dei secoli, non solo di fronte alla natura, ma anche di fronte alla storia, dall’altro la libertà umana assoluta, che è presupposto fondamentale, perché si possa avere una salvezza attraverso la Legge.

Il problema della libertà umana, intesa come capacità dell’uomo di scegliere sempre, in totale responsabilità, fra il bene e il male, non esiste, in Israele, come problema a sé stante, ma solo come problema riflesso di quello della via della salvezza, che è tema centrale, credo, dell’ebraismo che va dai Maccabei a Paolo, o ancora oltre, e che in questo scritto chiameremo convenzionalmente “tardo giudaismo”.

Paolo afferma che la Legge non può salvare; la giustificazione, indispensabile per la salvezza, è dono gratuito di Dio. La legge ha, sì, un grande valore per Paolo, che, come ebreo, non poteva non sentire di quella tutta la grandezza; ma questo valore nell’interpretazione di Paolo si fa puramente storico: la Legge è il pedagogo che ci ha condotti, già condotti, a Cristo (Gal 3,24). Dio è onnipotente e nella sua azione, volta a realizzare i suoi piani misteriosi, Egli sceglie chi vuole. Anche Giovanni insisterà su questo punto: non noi scegliamo Dio, ma Dio sceglie noi.

Paolo indaga su questo punto: quali leggi può avere la scelta di Dio? Nessuna, almeno di carattere umano. Si veda Rm 9,11 ss.: Che cosa può avere determinato la scelta divina di Giacobbe, se essa fu fatta quando i due bambini erano ancora nel seno della madre e quindi non potevano ancora assolutamente avere agito? Dio è onnipotente ed elegge chi vuole; non resta che rimettersi al mistero della sua volontà (Rm 11,32). Non è assolutamente pensabile che Dio abbia scelto in base alle opere.

È interessante notare che Paolo si riferisce all’episodio narrato in Gen 25,19 ss. non direttamente, ma attraverso le parole di Malachia (1,2-3): «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù». Nel racconto quale si ha nella Genesi, non si parla né di odio né di amore di Dio: Dio si limita a decretare una sorte: “il maggiore servirà al minore”, ma il perché non è detto. È solo di epoca più tarda, posteriore all’esilio, porsi il problema perché Dio abbia agito così. E se la risposta non si può dare sulla base di un ragionamento etico, non resta che cercare i motivi dell’azione divina al di là dell’umano, in una sorta di amore e di odio divino.

Paolo riprende con molto maggiore sofferenza il problema e ne cerca la soluzione nella stessa direzione voluta da Malachia, anche se per lui le parole “odio” e “amore” sono una semplice citazione: tutto per Paolo sprofonda nel mistero insondabile della volontà divina. E in ciò è sulla linea della tradizione cosiddetta sapienziale. Strettamente legata a questa concezione della Legge e della elezione divina, deve essere considerata la concezione che Paolo ebbe dell’uomo.

L’uomo non è pienamente libero di fare il bene che forse vorrebbe e che comunque riconosce tale (Rm 7,13 ss.). Perché si possa credere nella salvezza proveniente dalla Legge, bisogna credere in una libertà umana di scelta assoluta fra bene e male. Altrimenti Dio avrebbe posto in mano all’uomo uno strumento perfetto, ma tale che l’uomo non potrà mai adoperare Paolo nega che la salvezza venga dalle opere della Legge, ma nega anche che l’uomo sia interamente libero davanti al male. Fra la sua volontà e la sua azione interviene un quid per cui egli può fare l’opposto di ciò che vuole. Ci deve insomma essere nell’uomo qualcosa che si pone come ostacolo alla volontà fino a divenire principio d’azione.

Il cristianesimo si avvia così a riconoscere l’esistenza di un peccato originale. Queste varie concezioni di Paolo sono, come si vede, strettamente legate l’una all’altra. Paolo avvertì l’interdipendenza di queste concezioni e la necessità di sistemarle in un rapporto organico. Ma questo non significa che la loro interdipendenza si faccia sentire solo a livello della coscienza e in una mente di eccezione, come quella di Paolo: erano problemi che dovevano essere ampiamente sentiti.

La fermezza, per esempio, con cui i rabbini insisteranno sulla piena libertà dell’uomo di fronte al male mostra che, sia pure con una certa lentezza, il mondo ebraico avvertiva la necessità di una organizzazione del proprio pensiero. Per poter continuare a credere nella salvezza ad opera della Legge, bisognava confutare uno per uno tutti i punti prima toccati da Paolo. Non solo, ma è evidente che quell’ebreo che avesse avvertito il senso della propria impotenza di fronte al male in termini affini a quelli di Paolo sarebbe stato portato ad accettare il punto chiave dell’insegnamento di Paolo circa la Legge; e lo stesso dicasi per quell’ebreo che già si fosse posto il problema del rapporto fra azione umana e azione divina nella storia e avesse risolto il problema nel senso di una sottolineatura della onnipotenza divina agente liberamente nella storia, non più legata dalla concezione rimuneratrice.

 

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