Il Giuramento d’Ippocrate e il delicato tema del “fine vita”

Il Giuramento d’Ippocrate e il delicato tema del “fine vita”

di Don Gian Maria Comolli*

NORME, SENTENZE E REFERENDUM SI COALIZZANO PER NEUTRALIZZARE IL VERO AIUTO AL MALATO IN BASE AL GIURAMENTO DI IPPOCRATE: IL “SUICIDIO ASSISTITO” FINIRÀ CON IL DEMOLIRE DEL TUTTO IL RUOLO MEDICO?

La non punibilità dell’aiuto al suicidio in presenza di determinate condizioni decisa dalla Corte Costituzionale con sentenza 242 del 26 settembre 2019, il tentativo di legalizzare l’eutanasia operato dall’Associazione Luca Coscioni con la presentazione del quesito referendario ritenuto poi non ammissibile dalla stessa Consulta nello scorso febbraio e, infine, la legge 219/2017 in materia di “consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” che impone al medico di eseguire la volontà eutanasica del paziente perché «solo così sarà esente da responsabilità civili o penali» (art. 1) chiama prepotentemente in causa, medici e cittadini, nel dibattito sul c.d. fine vita.

Per quanto riguarda la “categoria” medica spiace constatare che, almeno per il momento, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), non ha obiettato alle derive sopra descritte o, meglio, il 23 gennaio 2020 ha adeguato prontamente il Codice Deontologico alla citata sentenza della Corte Costituzionale riscrivendo l’articolo dedicato agli “Atti finalizzati a procurare la morte” precisando che i medici non sono “obbligati” ma “autorizzati” a collaborare al suicidio assistito. Una precisazione puramente cautelativa, a nostro avviso, che non interviene quindi sul merito dell’attuale involuzione del ruolo medico nel delicato frangente del fine vita.

Se l’attuale situazione dovesse consolidarsi, però, sarà da una parte compromesso il plurimillenario ruolo del medico riscrivendo il suo identikit e il suo rapporto con il malato, trasformandolo da difensore della vita in acritico esecutore di ogni richiesta del paziente e, dall’altra, saranno completamente superati i tradizionali obblighi deontologici che questo professionista si assume con il “Giuramento di Ippocrate”. In quest’ultimo solenne e pubblico impegno, infatti, ciascun medico giura come noto «di perseguire come scopi esclusivi della [sua] professione la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza», nonché di evitare tutti gli «atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente».

Ebbene, il suicidio assistito e l’atto eutanasico, come lo è l’aborto, sono in totale opposizione agli obblighi deontologici e ripudiano e sconfessano il più ragguardevole principio etico, quello che riassume la finalità primaria della professione sanitaria: il principio di beneficenza (o beneficialità).

Come ha avuto modo di affermare il celebre oncologo francese Lucien Israel (1926-2017), un agnostico il cui rigore morale, intellettuale e scientifico è stato riconosciuto anche oltre i confini del suo Paese, «un medico non può uccidere un suo simile. Fa ciò che è necessario per dare sollievo ai suoi dolori fisici e alle sue difficoltà psicologiche attraverso le cure, la gentilezza e tutto ciò che gli fa percepire che c’è qualcuno intorno a lui che si occupa di lui. Ma è fuori questione che io o uno dei miei allievi accettiamo di uccidere un nostro simile».

Esaminando sinteticamente il Giuramento di Ippocrate, la “Magna Carta” del medico, emergono in effetti quattro idee fondamentali.

La concezione religiosa della professione, interpretata anche livello morale e religioso e non unicamente giuridico.

Il profondo rispetto della natura, dell’integrità dell’uomo e della vita mediante una leale obbligazione terapeutica supportata da una indispensabile abilità tecnica ed evitando ogni atto che possa nuocere ogni tipologia di esistenza.

Il rigoroso rapporto tra etica personale ed etica professionale, evitando ogni contatto vizioso o osceno, trasmettendo le nozioni scientifiche anche ad altri ed osservando il segreto professionale.

Il disinteresse economico, essendo il medico unicamente a servizio del malato e non, come potrebbe avvenire in tempo di pandemia, del “mercato della salute”, oppure avvalendosi di questa professione per accrescere i propri benefici di immagine ed economici.

I concetti di medicina a servizio della vita, di professione sanitaria come arte e vocazione, dovrebbero in definitiva rappresentare la stella polare o, come si suole oggi dire, le “linee guida” per ogni medico. Dimenticarlo ci farebbe perdere uno dei cardini grazie al quale la nostra civiltà è durata millenni.

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*sacerdote ambrosiano, collaboratore dell’Ufficio della Pastorale della Salute dell’arcidiocesi di Milano e segretario della Consulta per la Pastorale della Salute della Regione Lombardia. Cura il blogwww.gianmariacomolli.it.

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