Il PD non comprende che la sua agenda Lgbt importa meno di zero agli elettori

di Dalila di Dio

CHE ENRICO LETTA E DEBORA SERRACCHIANI, MASSIMI ESPONENTI DEL PARTITO DEMOCRATICO, BOLLINO L’ESITO DI LIBERE E DEMOCRATICHE ELEZIONI CON L’ESPRESSIONE “GIORNO TRISTE” SUONA DAVVERO DIFFICILE DA ACCETTARE

Oggi è un giorno triste il Paese”: con queste parole – associate a riferimenti vari a resistenze e combattimenti sulle montagne – i progressisti nostrani hanno salutato il trionfo di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia alle recenti elezioni politiche.

Ora, passi per Damiano dei Måneskin e per le varie soubrettine in cerca di visibilità, ma che Enrico Letta e Debora Serracchiani, massimi esponenti del Partito Democratico, bollino l’esito di libere e democratiche elezioni con l’espressione “giorno triste” suona davvero difficile da accettare.

Cosa c’è di triste in un Popolo che esprime la propria volontà? Cosa c’è di triste in un Popolo che decide democraticamente a chi affidare il Governo del Paese? Cosa c’è di triste un Popolo che si esprime con chiarezza e nettezza sulle priorità da affrontare nell’interesse generale?

L’unica cosa triste, in questa vicenda, è l’incapacità della sinistra italiana di comprendere e accettare che della sua agenda tutta asterischi, diritti, bagni unisex e soldi da regalare ai diciottenni agli italiani importa meno di zero. Tristemente, Serracchiani, Letta & co., ancora una volta faticano ad accettare che non si può sperare di vincere e governare spalando quintali di fango sul nemico e accusandolo di ogni nefandezza. Un giorno triste, sì. Ma per il PD che, per la prima volta da qualche lustro a questa parte, vede uscire dalle urne assieme a un risultato netto e preciso, l’impossibilità – almeno temporanea – di gestire potere senza alcuna legittimazione popolare: la sua specialità, insomma. Dentro a questo “giorno triste per il Paese” ci sono tutta la spocchia, il disprezzo per il Popolo e l’odio per la Nazione che fanno del Partito Democratico ciò che è: un’accolita di boriosi assetati di potere e incapaci anche solo di concepire un mondo in cui non siano loro – minoranza – a dettare la linea per tutti.

C’è in questo “giorno triste per il Paese” quel paternalismo, a cui si è fatto ampio ricorso nei mesi del Covid, che li porta a sentenziare che il Popolo non capisce cosa sia giusto per il Popolo. Gli Italiani, insomma, sono un gregge smarrito che si è lasciato sedurre da chi ha fatto promesse irrealizzabili e ha parlato alla pancia del Paese.

Come si sono permessi, questi sciocchi italiani, di dire di no a priorità come lo ius scholae, il ddl Zan o il matrimonio egualitario? Come hanno osato dubitare della serietà di proposte come “una mensilità in più in busta paga” o “diecimila euro subito ai diciottenni”?

Come hanno potuto voltare le spalle a noi, gente che piace alla gente che piace e scegliere quella là, l’urlatrice, la pericolosa fascista?

Domande sulle quali dirigenti e militanti del PD si arrovellano da giorni tra reazioni scomposte, facce disperate e regolamenti di conti in pubblica piazza: eppure, nonostante la lezione rimediata alle urne suggerisca di ritirarsi nelle private stanze a riflettere sui propri errori, dal PD – diretto e indotto – continuano ad arrivare feroci attacchi al Presidente del Consiglio in pectore.

Anziché concedere a Giorgia Meloni l’onore delle armi e mettersi a disposizione per venire prontamente incontro ai bisogni del Paese, la corazzata antifa’ ha trascorso la prima settimana della propria disfatta a ravanare nel passato della leader di Fratelli d’Italia, a lanciare strali sugli elettori incapaci di scegliere bene, a paventare disastri imminenti e ad addebitare decisioni asseritamente liberticide del Governo in carica – fino a prova contraria ancora presieduto da Mario Draghi – all’avvento del fascismo.

Così, la polizia che identifica degli studenti che manifestano contro l’esito delle elezioni (sic!) è una chiara evidenza dell’avvento del regime e la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Saviano aver dato della “bastarda” a Giorgia Meloni è una chiara prova di come il potere giurisdizionale si sia già asservito alla nuova dittatrice.

Insomma, lungi dall’imparare – o fingere di aver imparato – la lezione, i progressisti continuano la loro opera di demonizzazione della Meloni e di tutte le persone che le orbitano intorno, colpevoli a prescindere e pericolosi nonostante le dichiarazioni concilianti che la vecchia Democrazia Cristiana può solo accompagnare.

Secondo la filosofa Rosi Braidotti, esponente di punta di quella congrega di intellettuali che la sera si riunisce nel salotto di Lilli Gruber, “da quando è premier” (???) la Meloni, che in campagna elettorale “ha scatenato la sua faccia rabbiosa e cattiva”, “ne ha fatte di tutti i colori…nel senso che è sparita, sparita nel senso che non parla…”. Pensa se avesse parlato!

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