Sempre più connazionali si trasferiscono all’estero e chi rimane fa pochi figli

di Pietro Licciardi

L’INVERNO DEMOGRAFICO E’ ALLE PORTE

La Fondazione Migrantes ha appena pubblicato il Rapporto italiani nel mondo 2022 che fotografa il flusso migratorio dei nostri connazionali dopo aver elaborato i dati del 2021, anno particolarmente delicato in quanto immediatamente successivo all’emergenza pandemica con i suoi lokdown e le restrizioni imposte a viaggi e spostamenti in genere. Il dato che salta all’occhio, e che è stato messo in evidenza dagli stessi autori del rapporto, è che in Italia chi va all’estero per studio o lavoro normalmente non fa più ritorno in patria. Questo significa che oltre ad uno spopolamento dovuto alla mancanza di nuovi nati l’Italia deve fare i conti anche con la fuga di giovani adulti, ovvero persone magari laureate che decidono di costruire la loro vita oltreconfine.

I numeri non lasciano dubbi: se nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) è stato del 3%, questo dato diventa il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni, ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del Rapporto italiani nel mondo. Una curiosità: a “fuggire” sono state in misura maggiore le donne che in sedici anni sono diventate l’89,4% degli italiani residenti all’estero. Al primo gennaio 2021 la comunità dei connazionali oltreconfine era costituita da 5.652.080 unità, il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso quasi 384 mila residenti sul suo territorio (dato Istat), ne ha guadagnati 166 mila all’estero (dato Aire): un aumento di presenza all’estero del 3% nell’ultimo anno.

Per chi volesse approfondire rimandiamo alla lettura della sintesi del Rapporto. A noi interessa riflettere sul dato generale: la costante “fuga” e il mancato rientro in Italia di chi è espatriato. Cosa significa tutto ciò? Diverse sono le interpretazioni e le considerazioni possibili, nessuna delle quali positiva. Innanzitutto l’Italia rischia di diventare come l’Africa, un continente che si sta svuotando delle sue energie migliori, come più volte denunciato dagli stessi  vescovi africani, i quali vedono svuotarsi le loro diocesi di giovani, intraprendenti e magari anche qualificati, sempre più attratti dall’Eldorado europeo avendo perso fiducia nei loro governi, clientelari, corrotti, illiberali. Giovani che non potranno più contribuire allo sviluppo e al benessere del loro paese.

Per l’Italia questa diaspora, al di là delle conseguenze di tipo politico ed economico, ha probabilmente anche il significato di una crisi della speranza: una materia prima che né l’economia, né la politica sono in grado di produrre. Crisi che non colpisce soltanto chi se ne va in cerca di miglior fortuna all’estero perché si è convinto che a casa propria non troverà un lavoro decente, giustamente retribuito o non riescirà a farsi largo tra le caste e le consorterie che inquinano la società in ambito sia pubblico che privato, ma anche chi resta, come dimostra abbondantemente la scarsa propensione a fare figli, indipendentemente dagli aiuti e sovvenzioni.

Torna d’attualità l’intervista che il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, fece a La Stampa il 12 febbraio 2020 dopo che l’Istat diffuse la notizia che in Italia mai nacquero così pochi bambini come nell’appena trascorso 2019. «Per riempire le culle non bastano bonus o asili nido gratis. Bisogna lavorare sul tessuto sociale e ricostruire un’idea di comunità», disse De Rita il quale dopo aver messo in dubbio una maggiore propensione delle coppie ad allargare la famiglia in caso di maggiori interventi pubblici a sostegno delle nascite affermò: «E’ un problema più profondo di mentalità e di dittatura dell’io. Una società che non sa più dire “noi” non fa figli».

Potrà sembrare un azzardo ma vogliamo estendere questa considerazione anche a chi decide di andare e rimanere all’estero perché il proprio personale progetto di vita, il riconoscimento professionale, la realizzazione dei propri sogni e obiettivi vengono prima di ogni altra cosa, anche del futuro della propria terra natale. Del resto come dar loro torto, dopo sessant’anni buoni di sistematica e capillare demolizione di ogni senso di amor patrio, di appartenenza alla comunità nazionale ed esaltazione di ogni internazionalismo, da quello proletario di comunista memoria, all’odierno europeismo, immigrazionismo e globalismo, che vogliono fare di tutti noi cittadini del mondo, senza alcun legame con la terra e la famiglia, divenuta per alcuni mero “concetto antropologico”?

Come uscire fuori da questo apparente vicolo cieco? Chi può rimettere in discussione l’attuale “narcisismo di massa” che il circo massmediatico continua ogni giorno irresponsabilmente a ribadire? La risposta non può che essere: la Chiesa, sia nel suo magistero che nelle sue esperienze di vita cristiana pienamente vissute.

Col diffondersi dell’individualismo si affievolisce la solidarietà interpersonale, viene meno il senso della solidarietà e anche se non mancano più del necessario materiale molte persone si sentono sole, in balia di se stesse, senza reti di sostegno affettivo. Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come il centro assoluto e in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella vita quotidiana. Ma nessun essere umano può vivere senza prospettive di futuro.

La Chiesa, oggi come venti secoli fa, «può ancora annunciare che Gesù Cristo è il Signore; in Lui, e in nessun altro, c’è salvezza (cfr At 4, 12). La sorgente della speranza, per l’Europa e per il mondo intero, è Cristo, e la Chiesa è il canale attraverso il quale passa e si diffonde l’onda di grazia scaturita dal Cuore trafitto del Redentore». (Esortazione Apostolica Post-Sinodale Ecclesia In Europa 28 Giugno 2003). E’ lo stesso annuncio che dopo aver riportato la speranza nel decadente mondo Romano ricostruì e ridiede speranza all’Europa devastata dai barbari.

Dispiace perciò che al momento il magistero si perda dietro la cultura dominante, autoconfinandosi nel perimetro e secondo le priorità definite dal maintream borghese e progressista: la trasformazione del dovere del soccorso in mare in presunto diritto all’ insediamento definitivo in Italia dei salvati; la mancata consapevolezza del fatto che le migrazioni incontrollate sono il sintomo di un grave disagio ma non la sua soluzione; il dovere per la cura per l’ambiente radicato non nella responsabilità dell’uomo nei confronti del creato bensì nella paura nei riguardi della natura, tipico delle culture pagane di ogni tempo…

 

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