Le parole, sciocche ed inconsistenti, di Michela Murgia

di Sergio Caldarella

CHI SAREBBE A RIFIUTARE LA COMPLESSITÀ?

Lo scorso 24 dicembre, sul quotidiano La Stampa, è stato pubblicato un testo a firma di Michela Murgia con questo titolo: “I cattolici amano un dio bambino perché rifiutano la complessità.”

Questa dichiarazione colpisce per molte ragioni: innanzitutto si tratta, ancora una volta, di un’ipersemplificazione nel nome di un’ipotetica “complessità” alla quale la signora Murgia ed i suoi sodali redattori della testata pretendono di avere accesso come neofiti di oscure verità al contrario. 

Se, poi, anche senza una dettagliata cultura classica, si pensa per un momento al pensiero “cattolico”, trattato con tanta sufficienza nell’articolo, possono anche venire alla mente un paio di nomi come Agostino d’Ippona o Tommaso d’Aquino che, a meno di non averne mai aperto una pagina, difficilmente possono passare come figure che “rifiutano la complessità”.

Cosa potrà allora significare la frasetta “i cattolici amano un dio bambino perché rifiutano la complessità” che è buona, al massimo, per un elzeviro di giornata? Tempo addietro non era così difficile immaginare che la pratica consistente nell’avvolgere il pesce con i giornali del giorno precedente fosse non proprio igienicamente corretta, però aveva quantomeno il vantaggio di far capire il reale valore di quella carta stampata.

Le parole sciocche ed inconsistenti della Murgia – non è purtroppo la prima volta e, temo, non sarà l’ultima – riportano subito alla mente una nostalgia per quell’antica pratica dei pescivendoli appena menzionata ma, al tempo stesso, fanno capire quanto sia caduta in basso la nostra epoca diventata ormai incapace di percepire il vacuo e l’assurdo di tali dichiarazioni.

Questo è ancor più paradossale quando si pensa che quest’ennesimo “secol superbo e sciocco” invoca falsi ideali di “tolleranza” e “rispetto” per qualsiasi sconclusionatezza e stramberia, ma lascia poi che gli scrivani del regime del monopensiero si scaglino, con le loro parolette miopi e raffazzonate, su credenze religiose antiche e profondissime. Il rispetto che non si estende a tutti è solo mera ipocrisia e falsificazione intesa per altri scopi.

La signora Murgia, ben ringalluzzita dall’aureola di cartapesta che i reggitori dell’industria culturale le hanno posto in capo, non si pone in alcuna relazione teologica, filosofica o meramente umana con la figura archetipica del bambinello ma pontifica dalla sua cattedra di fumo e cartone. Cosa c’è, del resto, di più profondamente umano di un neonato, in una mangiatoia, riscaldato dal tepore della natura buona rappresentata, simbolicamente, dal fiato di un asinello e di un bue? Anche qui altre figure cariche di significati ai quali la nostra epoca è ormai sorda e cieca. 

Non staremo qui a discutere la profonda simbologia del “Dio bambino” contro cui questi si lanciano perché questo compito è teologico. Quello che colpisce, qui, è il rapporto che questi illuminati dell’oscurità stabiliscono tra il “dio bambino” (così come scrivono senza capire che già la minuscola, con la quale vorrebbero essere irrispettosi, indica che parlano d’altro) e la complessità. 

Quando capivamo di più, forse perché i neosapientoni come quelli che scrivono tali boutade erano affaccendati più con la zappa che non con la penna, sapevamo intuitivamente che nel divino risiede il più grande mistero, dunque la più profonda complessità. Quelli erano i momenti in cui la “reverenza per la vita” si accostava ed associava alla reverenza per il mistero che avvolge ed eleva l’esistenza ed in cui la più grande complessità era proprio racchiusa negli infiniti nomi con i quali si può solo accennare al divino senza poterlo mai raggiungere.

In quelle epoche, per quella gente con gli occhi ancora aperti sulla vita, il bimbo nella mangiatoia, simbolo dei simboli, incarnava i misteri, insieme alla reverenza per la vita e per l’Eterno. Chi si accostava a questa figura del “Dio bambino” aveva – ed in alcuni casi ha ancora – un senso profondissimo di quanto è rappresentato in questo sinolo tra finito ed infinito.

Oggi invece, nel clima di brutalità morale ed intellettuale dell’epoca, tutto questo non soltanto non viene più percepito a livello della società generale, ma diventa oggetto di beffa e scherno, come già in altri tempi, il massimo rappresentante di un Impero che non è più, in un luogo che per il potere di allora era a malapena un insignificante avamposto, chiedeva, anch’egli con accento di derisione e altezzosità, all’uomo maltrattato e incatenato che gli stava davanti: “Sei tu il re dei Giudei?”.

 

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