“Living”: un film dal cristianissimo messaggio etico

di Mario Spinelli*

COME AMORE, SOLIDARIETÀ, ONESTÀ INTELLETTUALE E TUTTI I VALORI MORALI, SOLO TRASFORMANO LA VITA E LA RENDONO FELICE, RIVOLUZIONANDO E MIGLIORANDO LA SOCIETÀ.

Il racconto capolavoro di Leone Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic, pubblicato nel 1886 e magistralmente portato (e attualizzato) una prima volta sullo schermo dal maestro Akira Kurosawa nel 1952, viene ora riproposto nel remake di Oliver Hermanus (Living, 2023). E per la seconda volta (terza se consideriamo il lavoro di Tolstoj) la storia, il tema e il protagonista immaginati dal grande autore russo fanno centro, imponendosi all’attenzione e ammirazione del pubblico. Trama e personaggi di Tolstoj erano stati abbastanza modificati dal geniale cineasta nipponico, che nel suo Ikiru (Vivere, 1952) aveva spostato agli anni ’50 la vicenda di Ivan, condannato a morte da un male misterioso e deciso a riscattarsi almeno nell’ultima fase della vita con una condotta più retta e nobile. 70 anni dopo il quarantenne regista sudafricano Oliver Hermanus, autore fra l’altro di Shirley Adams (film d’esordio, 2009) e Beauty con cui vinse il Queen Palm Award a Cannes nel 2011, torna su tema e personaggi della novella tolstoiana con questo Living, presentato nel 2022 al Sundance Film Festival di Salt Lake City e alla Mostra di Venezia. Prima di tutto va detto che il film dimostra l’universalità e la perenne attualità dei classici e della grande letteratura incentrata sull’uomo e il suo mondo interiore. Anche se in realtà Hermanus, valendosi come sceneggiatore addirittura del Premio Nobel Kazuo Ishiguro (non a caso giapponese, ma inglese d’adozione), si rifà non direttamente a Tolstoj ma più che altro a Kurosawa, riprendendo in sostanza il titolo del suo film e conservando la stessa collocazione cronologica, i primi anni ’50.

Cambia lo scenario urbano-sociale, che non è più quello nipponico del dopoguerra ma è la Londra della City e dei colletti bianchi con l’eterna bombetta e l’ombrello. Uno di questi è appunto il protagonista del film, Mr. Williams, interpretato da un Bill Nighy in stato di grazia, per qualche critico la miglior prova della sua carriera. Sessantenne malinconico e segaligno, vicino alla pensione, Williams è capoufficio ai lavori pubblici e mantiene le distanze con i suoi impiegati, tutti britannicamente freddini e laconici ma meno di lui. Ottusità e cinismo, rampantismo e ossequio servile, gossip e frustrazione fanno da padroni in questo ambiente burocratico che ricorda Gogol, Cechov e se vogliamo il Monicelli del Borghese piccolo piccolo o anche I burosauri di Silvano Ambrogi, l’indimenticabile commedia satirica del 1962. Dalla coltre polverosa emerge Mr. Williams con la sua autorità e il suo aplomb, ma sul piano umano e affettivo il bilancio della sua vita è magro. Vedovo, senza amici, con figlio e nuora che ne attendono la fine per passare in cassa, neanche ufficio e lavoro lo possono compensare, alienanti e impietosamente routinari come sono. E tutto questo mondo di piccole gerarchie, di ipocrisie e di miserie umane, dove tutto procede inutile e uguale, è stupendamente reso dall’innegabile talento sia del regista che degli interpreti. Ma qualcosa interviene a smuovere le acque ristagnanti. Mr. Williams viene a sapere di avere un cancro allo stomaco, il medico gli pronostica dai 6 ai 9 mesi di vita. Lì per lì si abbatte, è disorientato e svuota il conto in banca per fare chissà che. Ma poi scoppia una rivoluzione ben più profonda nel suo cuore e nella sua vita. Il vecchio funzionario scopre la gentilezza, la lealtà, l’altruismo, la bontà. Diventa più aperto con gli altri, più empatico e tollerante coi subordinati e vive perfino una specie di favola d’amore (rigorosamente platonico) con un’impiegata neanche trentenne, Margaret, interpretata da una bravissima Aimee Lou Wood. Però il top della sua conversione, o meglio la verifica dell’autenticità della stessa, il vecchio funzionario lo tocca con qualcosa che ha a che fare proprio col suo solitamente monotono e squallido lavoro. Da un istante all’altro decide di tirar fuori dal dimenticatoio (dove “non nuoce a nessuno”, come lui usa dire) e addirittura di dar corso alla domanda presentata da alcune madri di un quartiere popolare che da anni premono inutilmente sul suo ufficio per ottenere l’allestimento di un parco giochi per i loro figli in un’area degradata e inutilizzata.

E così un altro Williams è quello che si reca personalmente sul posto, tirandosi dietro tutti gli increduli dipendenti sotto una pioggia scrosciante, e organizza a puntino i lavori dell’erigendo parco. Che naturalmente vedrà la luce in tempi brevissimi. Un finale sorprendente che allarga al sociale il cristianissimo messaggio etico del film. L’amore, la solidarietà, l’onestà intellettuale e tutti i valori morali, che si trascurano vivendo passivamente e al riparo di regole sclerotiche e ingiuste, non solo trasformano la vita e la rendono felice, ma rivoluzionano e migliorano la società. Inclusa la sempre irreformabile burocrazia! A chi eventualmente giudicasse moralista e/o crepuscolare questo film, vogliamo dire concludendo che da un lato il gusto, l’intelligenza e la sensibilità di Hermanus e dall’altro la finezza e misura di attori e attrici, specialmente di Bill Nighy, tengono lontano anni luce questo pericolo da un’opera ch’è senz’altro un piccolo capolavoro.

*redattore del portale FamilyCinemaTv

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