L’otto marzo e l’abuso (e la perversione) della parola “amore”

di Diego Torre

LOVE IS LOVE? MACCHÈ!… DEUS CARITAS EST!

Una delle stravaganze del nostro tempo è l’abuso della parola “amore”. Anche fra alcuni cristiani essa ha preso una sapore dolciastro e melenso, in netto contrasto con un’altra parola carica di echi teologici e (finora) meno inflazionata di amore, ovvero “carità”. Quanto ha insegnato in merito la Chiesa! Per rimanere solo ai Papi recenti, rimane significativa la definizione di Benedetto XVI: “solo nella verità la carità risplende” (Caritas in veritate, 3).

Essa manifesta la capacità delle altre due virtù teologali, fede e speranza, di incidere nella nostra essenza. Non è un optional per i credenti! “Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. … la fede che opera per mezzo della carità”(Gal 5,5). E per chi fuorviasse gli altri dalla legge dell’amore, riducendo la fede a fideismo o conformismo, Paolo sentenzia duramente: “Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano”(Gal 5,12).

Le tre virtù sono strettamente connesse. La fede provoca il nostro modo di vivere, pretende di venire per prima e finisce per impregnare mente, cuore e volontà. Da essa scaturisce la carità che da testimonianza. Ma non basta il, pur necessario, buon esempio in un mondo che ci interroga, anche provocatoriamente; bisogna anche essere «pronti a rispondere a chiunque vi domanda la ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3, 15), consapevoli della valenza culturale della nostra fede e della sua capacità d’incidere nella nostra vita ed in quella della società.

Il cristianesimo non è riducibile soltanto ad una dottrina. Esso è l’annuncio della incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, entrato con forza nella storia, che ha dato una dimostrazione, carnale ed evidente, del Suo amore per noi. Il cristiano, alter Christus, esercita la virtù teologale della carità “per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo nostro come noi stessi per amore di Dio” (CCC 1822). Essa “purifica la nostra capacità di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell’amore divino”(CCC 1827). Non più la capacità naturale d’amare secondo natura, ma la carità sovrannaturale che è Dio stesso: Deus Caritas est! (1 Gv 4).

Amare infatti non è seguire impulsi sbagliati e sentimentalismi o fare contento l’altro a tutti costi; meno che mai è premura smodata per noi stessi, ovvero scegliere ciò che ci conviene anche se ingiusto. E’ una scelta libera fatta di ragione e volontà. La libertà dei figli di Dio giunge al suo giusto compimento quando si “fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21), e “non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13). Quindi “Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore” (Gv 15,9).

L’amore è ciò che Dio, che è l’Amore per eccellenza, chiama amore, ovvero il compimento del suo volere, che è il massimo sicuro bene per tutti. A tal fine tutti gli aspetti della vita vanno orientati: il lavoro, la famiglia, l’amicizia, il divertimento, i soldi. «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31). E questo vale per ogni battezzato, prete o laico, monaca o madre, operaio o imprenditore.

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