Aldilà della conoscenza: il ritorno socratico alla comprensione

Aldilà della conoscenza: il ritorno socratico alla comprensione

di Marco Andreacchio

IL SOCRATICO TENDE AI PRINCIPI DELLE COSE

Giambattista Vico ci ricorda che la filosofia è, ai suoi primordi, ricerca o percorso del sapere (scientia/sapientia), dove il sapere consiste nel possesso dei principi delle cose.  Secondo tale concezione, la filosofia è ascesa dal mondo delle sembianze, o delle convenzioni umane, al mondo reale dell’essere.  La filosofia comporterà allora una trasformazione di ciò che sembra essere in ciò che realmente è.  Potremmo giustamente parlare qui di trasformazione alchemica, o di metamorfosi in termini ovidiani.  In ogni caso abbiamo a che fare con un passaggio da ciò che è inferiore a ciò che è superiore, ossia da ciò che è meno reale a ciò che è più, anche eminentemente reale.

La filosofia socratica implica, tuttavia, un’inversione o una conversione della filosofia mediante la quale cerchiamo i principi delle cose, non in termini di conoscenza, ma in termini di comprensione (intellegere), la quale richiede non semplicemente conoscenza, ma riflessione su ciò che si suppone sia conosciuto, vale a dire i principi delle cose.  Socrate è scettico nei confronti della conoscenza o saggezza presocratica, la quale presuppone che il male sia riducibile all’ignoranza.   Per liberare noi stessi o il nostro cuore dal male, abbiamo bisogno di qualcosa di più della semplice conoscenza; ci occorrerà del coraggio, una virtù che non si può insegnare.  Non sarà mera conoscenza ad essere semplicemente buona, ma conoscenza convertita dalla riflessione in comprensione che procede attraverso fede ossia fiducia in una mente o forma-vivente di ogni conoscenza.

Il socratico tenderà ai principi delle cose, non “gnosticamente” come oggetti di acquisizione o mezzi di potenziamento, ma come domande o problemi viventi e svelati al disotto di ogni possibile conoscenza.  Ciò che si cerca non è la sostituzione dell’opinione popolare con un sapere elitario, ma il fondamento di tale sostituzione così come della tendenza a ricercarla. Ciò che si cerca è, in una parola, Dio come mente provvidenziale che contiene ogni forma in quanto vivente ed eterna, esistenziale ed essenziale.

Il ritorno socratico alla comprensione è necessariamente in contrasto con le aspettative gnostiche o presocratiche riguardanti la capacità dell’uomo di risorgere autonomamente dalla sua condizione caduta attraverso tecniche di autocontrollo.  Tutti i tentativi umani di superare lo iato che separa il finito dall’infinito e di colmare così il divario tra la nostra finitezza e l’origine e fine di ogni cosa si rivelano come semplici specchi di un’azione operante “dal principio” (in principium) al cuore di ogni cosa e che ci chiama a servirle da mediatori.

L’uomo socratico si apre all’intervento divino come paradigma assoluto di una virtù umana vista qui principalmente come prudenza.  La sfida da affrontare?  Ritornare con prudenza (evitando “ricadute”) all’ascolto, alla cura di ciò che è nascosto a noi ed in noi; al mistero o all’essere misterioso: all’essere come mistero supremo.  Tuttavia il mistero non è ormai soltanto qualcosa al di là delle sembianze, ma qualcosa operante costantemente 1. nell’ordinamento di ogni cosa come portatrice dell’essere intellettivo e quindi 2. nel governo delle forme dell’illuminazione intellettiva.  Mistero come azione provvidenziale che organizza sembianze per riflettersi.

Insomma, l’ascesa socratica verso l’eminentemente reale – il regno delle forme eterne – non comporterà un allontanamento dal temporale o dal terreno, ma la sua illuminazione: il viaggio dal basso verso l’alto sarà un viaggio riflessivo verso la dignità recondita dell’inferiore, un cammino che testimonia l’inerenza primordiale del superiore nell’inferiore e quindi di una “benedizione originaria” al cuore delle cose nella loro condizione “caduta”.

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