La Corte Costituzionale smantella il Jobs Act
di Pietro Scudeller (Avvocato)*
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UNA SCELTA PIÙ POLITICA CHE GIURIDICA?
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 129 dello scorso luglio, ha allargato le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato, rispetto a quelle in cui al lavoratore spetta solo un’indennità economica.
Come noto, per gli assunti dal 7 marzo 2015, il così detto Jobs Act, cioè il decreto legislativo 23 del 2015, voluto dal Governo Renzi, aveva fortemente limitato le ipotesi di licenziamenti illegittimi che potevano dar luogo alla reintegrazione, preferendo, per la maggior parte dei casi, stabilire la spettanza di un mero risarcimento economico, monetario.
Il restringimento del campo di applicazione del rimedio (c.d. forte) della reintegrazione e l’allargamento del rimedio (c.d. debole) dell’indennizzo economico era già cominciato con la Riforma Fornero, che nel 2012 aveva rivisitato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma la vera spinta verso la monetizzazione del posto di lavoro s’era avuta poi nel 2015 ad opera del Jobs Act.
Come osservato di recente da un eminente Autore dottrinale, alla riforma che ha reso l’indennizzo la regola e la reintegrazione l’eccezione, è conseguita “una difficoltà culturale di assimilazione da parte dei giuslavoristi: la compatibilità dell’indennizzo come rimedio al licenziamento non fondato su una giusta causa o un giustificato motivo.
Una scelta che riguarda e compete alle valutazioni di politica del diritto compiute dal legislatore”.
Da ciò le numerose questioni di incostituzionalità della nuova disciplina che sono state sollevate negli ultimi anni da parte di svariati giudici.
Ma la Corte Costituzionale, vagliando tutte tali questioni sottopostele, aveva finora quasi sempre confermato l’impianto legislativo, intervenendo con tagli solamente del tutto marginali.
La sentenza in commento, invece, pare affiancarsi all’opera di taluni giudici di merito renitenti alla nuova disciplina ed inserirsi nell’obiettivo di demolizione delle scelte del legislatore per via interpretativa.
Peccato che le giustificazioni rese per una siffatta scelta rivelino una natura della medesima che sembra più politica che giuridica, in quanto appaiono (a chi scrive) sfornite di senso logico-giuridico.
Va premesso infatti che la Corte aveva già sancito la legittimità costituzionale sia della distinzione temporale tra vecchi assunti e nuovi assunti, sia la legittimità del rimedio indennitario in sè come conseguenza di un licenziamento ingiustificato, sia l’adeguatezza della misura quantitativa dell’indennità stabilita dal legislatore italiano (cfr. sentenze 194/2018, 254/2020, 59/2021, 125/2022, 3/2024 e 7/2024).
Ora, invece, con la sentenza in commento, la Corte ha sancito che il comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. 23/2015 è sì costituzionale, ma solo in quanto sia interpetato nel senso che nelle ipotesi di licenziamenti irrogati per fatti rientranti tra condotte punibili con sola sanzione conservativa per previsione dei contratti collettivi, il rimedio applicabile sia quello della reintegrazione, e non (più) quello indennitario.
La reintegrazione era prevista come rimedio per tali casi, espressamente menzionati, dall’art. 18 St. Lav. (nella versione post Riforma Fornero); ma nel Jobs Act tale soluzione sembrava abbandonata, in quanto il comma 2 in questione, dopo aver introdotto nel comma 1 la regola dell’indennizzo, prevedeva che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” si applichi il rimedio della reintegrazione; mentre in tutti gli altri casi, il comma 1 del medesimo articolo prevedeva, appunto, la sanzione meramente indennitaria.
Con una motivazione incentrata sulla presunta violazione della libertà sindacale garantita dall’art. 39 della Cost., la Corte Costituzionale ha fatto rientrare dalla finestra la reintegrazione anche per i licenziamenti dei nuovi assunti sub regime Jobs Act, sostenendo che, se così non fosse, i sindacati verrebbero privati della libertà di prevedere nei contratti collettivi quali casi siano punibili con sanzioni conservative e quali con il licenziamento.
In altre parole, ha equiparato il caso in questione a quello della insussistenza del fatto materiale addotto dal datore di lavoro. Il punto è che la libertà sindacale non sembra affatto scalfita dalle conseguenze della illegittimità del licenziamento scelte dal legislatore, incidendo le previsioni dei contratti collettivi solamente sulla legittimità o meno dei licenziamenti.
Una volta che il licenziamento sia stato giudicato illegittimo per violazione di una norma di contratto collettivo, non si vede perché dovrebbe diventare necessaria la reintegrazione, se il legislatore ha stabilito la punibilità di quella illegittimità con l’indennizzo.
Pare evidente, infatti, che l’inidoneità del fatto contestato a sorreggere il licenziamento non sia la stessa cosa della insussistenza del fatto medesimo (anzi: l’inidoneità del fatto conferma semmai la sussistenza di esso!).
Quindi l’inidoneità determina sì l’illegittimità del licenziamento, ma come qualsiasi altra ipotesi di violazione di regole giuridiche o contrattuali che determinano tale illegittimità: con la conseguenza che il caso si dovrebbe ritenere rientrare nella previsione del comma 1, di “casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa” (“salvo quanto disposto dal comma 2”), per i quali la norma prevede l’indennizzo economico.
Seguendo il ragionamento della Corte, qualsiasi altra violazione di contratto collettivo, allora, che renderebbe inidoneo il fatto contestato a sorreggere il licenziamento (ad esempio il ritardo nella comunicazione del medesimo), potrebbe assimilarsi ad insussistenza del fatto e comportare quindi la reintegrazione.
Ma in questo modo la volontà del legislatore risulta del tutto pretermessa, scavalcata.
Si potrebbe pensare (honi soit qui mal y pense) che la sentenza risulti, operando una scelta appunto che sembra più politica che giuridica, «tirare la volata» al referendum per l’abrogazione del Jobs Act per il quale la CGIL sta raccogliendo le firme.
Ma una Corte Costituzionale dovrebbe attenersi al diritto positivo, nel rigoroso rispetto dei compiti ad essa assegnati dagli artt. 134-137 della Costituzione, non fare politica del diritto, creando, per via apparentemente interpretativa, nuove norme.
* Avvocato del Foro di Treviso