Il XXXIII canto del Paradiso e la fine del viaggio di Dante
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LA VISIONE DI DIO
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!”
(Divina Commedia, vv. 1-39)
Siamo nel XXXIII canto del Paradiso, ultimo canto del Sacro Poema, e qui si conclude il viaggio di Dante, che il nostro viaggio. Siamo nell’Empireo, nel decimo Cielo, la sede di tutti i beati. È la mezzanotte del 15 aprile 1300, o, secondo altri commentatori, del primo aprile 1300. È il canto di un uomo alla ricerca della salvezza, l’uomo che vuole indicarci la via della salvezza, un uomo eccezionale, che ha avuto una personalità vasta e formidabile. Un poeta che non lascia posto a nessun altro, che occupa tutto lo spazio, occupa tutta la scena, tutto muta solo se lui muta. Perché Dante è il poeta di ogni tempo. Dante è sempre un contemporaneo. Perché egli è tutto, il mistico, la guida, il viaggiatore folle verso la purezza, il poeta e il profeta chiamato dall’alto per salvare l’umanità, lui, l’eterno viandante dell’Aldilà. In questo canto, dopo una preghiera alla Vergine, l’Alighieri perviene alla visione di Dio, della Trinità e dell’Incarnazione. Dante ha visitato il mondo dei dannati, l’inferno, il purgatorio, dove i peccatori si purgano prima di salire in paradiso, e infine il paradiso, il regno dei salvati. Si conclude il cammino della redenzione individuale, paradigma della salvezza universale. Siamo nel punto più alto del poema, in senso fisico, spirituale, poetico. Qui è il vertice della poesia dantesca, in cui il Poeta si sforza di far comprendere il mistero dell’Incarnazione, della Trinità e della Creazione: la visione di Dio e dell’universo.
Il canto comincia con la “santa orazione”, annunciata nel canto precedente, cioè la preghiera che San Bernardo rivolge alla Vergine Maria, che si apre con antitesi e ossimori, (Vergine e madre, figlia del tuo Figlio, la più umile e grande fra tutte le creature, oggetto del decreto eterno di Dio, tu sei colei che nobilitasti tanto la natura umana che il suo Fattore non disdegnò di farsi propria creatura) come a rimarcare che il concetto di divinità è oltre la comprensione dell’intelletto umano.
Perché San Bernardo? Dante conosceva bene San Bernardo di Chiaravalle, grande teologo e mistico del XII secolo, e lo sceglie perché più di ogni altro egli aveva contribuito all’affermazione del culto di Maria Vergine come la più alta mediatrice tra Dio e l’umanità, soprattutto per via della sua pura maternità. Tutta la tradizione mariologica, dotta e popolare, si riversa in questa orazione, ed è un perfetto equilibrio linguistico e dottrinale, non sono presenti lussi verbali e nemmeno effusioni di tono popolare, è un’orazione a un tempo umile e alta, disse il critico tedesco Erich Auerbach, che “c’è l’eloquenza di un’iscrizione in un monumento della vittoria e la dolcezza di un poema d’amore”. San Bernardo chiede alla Madre di Dio di fare avere all’uomo che aveva attraversato il profondo inferno e il purgatorio, e infine il paradiso, dunque tutte le condizioni spirituali dopo la morte, attraverso la Grazia di Dio, la virtù necessaria per vedere Dio, fine del suo percorso di salvezza. E alla Vergine indica Beatrice, e tutti i beati, che congiungono le mani alla sua preghiera. Gli occhi di Maria Vergine venerati da Dio, posandosi su San Bernardo, mostrano che le preghiere del grande mistico erano state accettate, quindi si levano verso la luce eterna di Dio con uno sguardo ineguagliabile per purezza.
Diciamo subito che in questo canto, davanti a Dio, Dante vede e non vede, s’inoltra nella luce di Dio ma da quel momento in poi la sua visione è tale che il linguaggio umano, anche se altissimo come il suo, è insufficiente a esprimerla, così come anche la memoria non è capace di ricordarla pienamente. Dante afferma di essere simile a colui che sogna che, al risveglio, non ricorda nulla di quel che ha visto, pur conservando nell’animo un’impressione simile a un sogno, perché egli ha dimenticato tutto ciò che ha visto ma conserva nel suo cuore la dolcezza infinita che quella visione gli ha provocato. Allo stesso modo della neve che si scioglie al sole in modo simile, racconta in versi meravigliosi, e così come le foglie che, con sopra scritto il responso della Sibilla, si disperdevano al vento. Il suo viaggio è stato un sogno ma anche realtà. Così egli invoca la luce di Dio affinché essa gli consenta di ricordare in minima parte come essa gli si è mostrata al momento della visione, e renda il suo linguaggio tale da poter lasciare ai posteri almeno una scintilla della Sua gloria, cosicché le sue parole possano esprimere la visione di Dio.
Dante allora cerca di penetrare con lo sguardo nella mente e nella visione di Dio, e rimarrebbe smarrito se ne distogliesse gli occhi: così il poeta acquisisce coraggio per reggere quell’eccezionale visione ed entra così con il suo sguardo nell’infinito, spingendo la vista oltre le possibilità umane. Dante vede nella mente e nella luce di Dio tutto l’Universo legato in un volume, sostanze, accidenti e i loro rapporti uniti insieme; vede, insomma, l’essenza divina che unifica in un tutto armonico tutte le cose create, e ricordando questa esperienza nel mondo terreno ancora sente accrescere in sé tale smisurata gioia. “A l’alta fantasia qui mancò possa”, a un certo momento dice il poeta. Rievocando l’impresa degli Argonauti, Dante ci dice che un attimo è stato sufficiente per immergere la sua visione in un oblio più profondo di quello che venticinque secoli non abbiano fatto dell’impresa degli Argonauti, un’impresa che egli immerge nella profondità eterna del mito, così la visione di Dante è immersa nella profondità dell’inconoscibile, afferma il critico Umberto Bosco. Una cosa però Dante comprende, che prima non vedeva, cioè il coesistere sulla Terra di bene e male, i giusti che soffrono e gli ingiusti che trionfano, ed è il fatto che davanti a Dio il male e l’ingiustizia sono “conflati”, con la “sostanza”, che non può essere che il bene.
Anche per questo Dante continua a tenere lo sguardo fisso nella luce divina, è impossibile volgere gli occhi altrove, perché tutto il bene è compreso in questa luce, e ciò che lì è perfetto al di fuori è in difetto. A tal punto la visione di ciò che ha visto sovrasta la sua memoria, che egli potrà riferire di quella visione meno di quanto potrebbe dire un bimbo che sia ancora allattato dalla madre.
Così il Viandante verso la salvezza vede Dio. E Dio è la Trinità. Dio è – ecco il mistero della Trinità e dell’Incarnazione – tre giri/di tre colori e d’una contenenza, cioè tre cerchi di uguale grandezza e diverso colore, dei quali il secondo (il Figlio) riflette il primo (il Padre) e il terzo (lo Spirito Santo) spira da entrambi. Dio è uno e trino, in quanto Dio risiede solo in sé stesso, ma in quanto comprende è il Padre, in quanto è compreso è il Figlio, mentre l’amore che spira da esso, da sé stesso, è lo Spirito Santo.
La grandezza della descrizione della Trinità, hanno detto Croce e altri critici, non è nella visione dei cerchi ma nel desiderio di Dio, e nell’impossibilità di esprimerlo, di capire il mistero, nonostante Dio gli abbia concesso gli strumenti per avvicinarsi alla comprensione di sé.
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
(Divina Commedia, vv. 85-93)
Nemmeno Dante può vincere quest’impresa. La natura del Paradiso è trascendente, arcana, inattingibile, a un intelletto umano. Dante col suo genio può farne intravedere come un sogno misterioso e lontano l’intatta eternità e l’immensa beatitudine: la parola dell’uomo non può andare oltre, non può trasmetterne l’essenza al mondo terreno. Siamo in uno spazio e in un tempo diversi, nel regno del mistico, dove la realtà è abolita. Siamo solo nella luce e nella musica, nel silenzio che conduce a Dio. Nel paesaggio immacolato, da dove – contrariamente all’angustia terrestre dei primi due regni – si può vedere l’ordine e l’armonia di tutto l’universo. Questo è il Paradiso, il firmamento che partecipa dell’infinita presenza di Dio nel cosmo. Nel Paradiso termina e si consuma il tempo dell’ascesa, lo spazio verticale verso Dio. Questo è anche il viaggio di Dante, la successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all’Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati. Qui – anche se appaiono nei Cieli diversi in trasparenze individuali – sono tutte le anime del Paradiso, i beati, i salvati, raccolti nel mistico fiore, in un unico consesso. Il Dio di Dante è nello stesso tempo vicino agli uomini e lontano, inattingibile, un mistero sempre profondo ma insondabile, inconoscibile.
Non si deve mai dimenticare, infine, che questo non è solo l’ultimo canto del Sacro Poema ma è anche l’ultimo della vita di Dante, è insomma il culmine del suo impegno etico-religioso e della sua esistenza terrena, è lo slancio verso l’eternità.
Nella conclusione del poema non c’è più posto per la contingenza, c’è solo posto per la salvezza dell’anima. La punizione dei cattivi, l’esaltazione dei buoni, tutto ormai è ristabilito, non esiste più nemmeno il desiderio di tornare a Firenze. Il dolore, il rancore, gli affetti, le speranze, i sogni, tutto ciò che sveva costituito la sua poesia, ora è dissolto nell’eterno, nel pensiero di godere dell’eterno. Maria Vergine e Dio sono vicini ma inaccessibili. I beati che si levano in alto le mani giunte sembrano, disse Croce, un affresco giottesco, anch’essi semplici ma inseriti nell’eterno.
Così si conclude il viaggio di Dante. Egli è l’unico uomo che attraverso la ragione (Virgilio), la teologia e l’amore (Beatrice), il misticismo (San Bernardo), la grazia di Dio (la Madre di Cristo), vede Dio, l’armonia e l’ordine di tutto il Creato. Così in Dante trovano pace il tempo e lo spazio, l’inferno e il paradiso, l’eterno e la storia, Lucifero e Dio.
Perciò l’apparente ingiustizia non esiste. Per Dio che regge l’universo e l’ordine del mondo, il male e l’ingiustizia si dissolvono nella superiore giustizia oltremondana. Allora Dante trova finalmente la pace perché ormai sente di far parte dell’ordine universale. Insomma, Dio che muove il sole e l’altre stelle,
“ma già volgeva il mio disìo e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che move il sole e l’altre stelle”,
allo stesso modo muove anche lui, che in questo modo, benché sia una parte insignificante, infinitesima, dell’universo, partecipa al ritmo vitale che Dio ha impresso in ogni creatura, a ogni angolo sperduto dell’universo. Così egli partecipa al bene, e trova la pace il suo poema, e trova la pace la sua vita.