La stanchezza d’Europa e l’eterno ritorno dell’informe
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RIFLESSIONI PER QUELLI ANCORA IN STATO DI VEGLIA
L’Europa è stata più volte l’epicentro della caduta e della rovina: discesa nella barbarie e nell’orrore, è stata capace di risollevarsi e ricostruirsi dalle macerie e, ad un certo punto, per dirla con Gottfried Benn, era anche riuscita a conquistare una sua “forma”.
Le luci d’Europa, per ricordare la frase epocale di Sir Edward Grey, si sono però spente nel 1914. Dopo il 1945 delle incerte lampade hanno preso il posto delle luci che splendevano precedentemente alla Grande guerra e adesso, nel XXI secolo, il vecchio continente deve tornare a ripercorrere i sentieri duri e ferrigni della decadenza. Oppure si tratta solo della stanchezza di una terra ormai schiacciata tra blocchi i quali ripetono, anch’essi, una storia remota almeno quanto l’antica Babilonia? La quaestio è per i posteri.
I Diari tra il 1939-45 della scrittrice svedese Astrid Lindgren pongono, accanto alle preoccupazioni dell’epoca per una civiltà che andava in fiamme, anche la dichiarazione esplicita secondo cui il mondo era impazzito, un tema che l’autrice solleva spesso in quest’accattivante lettura impegnata nelle preoccupazioni quotidiane e nelle grandi domande quali la possibilità, o capacità, del singolo di opporsi al grande male portato dalla guerra.
L’autunno del 1989, culmine degli eventi politici del Novecento, ha poi rotto le dighe e lasciato che il vuoto irrompesse come un fiume in piena: “la morale è crollata con il muro di Berlino” farà dire Luis Sepúlveda ad uno dei personaggi di un libro significativamente intitolato El fin de la historia; La fine della storia, il mantra di ogni mondo nuovo.
L’Europa, come annunciato da alcuni nello scorso secolo, pare abbia per suo destino quello di ripetere una trasformazione apocalittica verso ciò che è assolutamente altro da sé: eterno ritorno dell’informe. In questo caso sembra sia il nichilismo, dunque il Nulla, a volersi imporre, ancora una volta, sull’Essere: il Nulla ed il vuoto che provano ad imporsi come destino e forma.
Per questa svolta non può esservi una spiegazione unicamente razionale: perché mai l’homo occidentalis dovrebbe “razionalmente” scegliere l’annientamento di sé e della propria comunità nel Nulla? Un disfacimento dapprima nello spirito e, poi, nella natura stessa. La morte dell’arte, devoluta in tele imbrattate e banane appiccicate al muro con il nastro adesivo, ne è forse un’indicazione intuitiva e bizzarra la quale, paradossalmente, non viene colta o tematizzata con la preoccupazione che le si dovrebbe dedicare. Nel XXI sec. si crede, ad esempio, che siano “musica” quelle frastornanti ninnenanne per la mente e lo spirito diffuse ovunque dagli altoparlanti che gli ignavi si portano ormai sempre dietro: ski-ba-bop-ba-dop-bop…
Anche qui il nichilismo moderno vuole che gli venga pagato pegno attraverso un dominio collettivo sui cuori e le menti. Solo l’anima, eterno custode di noi stessi, vi si sottrae, ma la presa del Nulla è ferale e trasforma ciò che è vivo, lo sguardo raggiante sollevato verso il cielo stellato sopra di noi (Kant), in occhi spenti ed in una coscienza assopita nella tenebra e nel dolore. Lo spirito della Riforma e del modernismo si è allora mutato in una stravolgente quanto scombinata volontà del nulla. Il XXI sec. diventa l’epoca in cui trionfano il post-nichilismo e la post-verità (post-vérité), quel momento della storia – che precede, in genere, fatali collassi – in cui il vuoto ha conquistato, e raggiunto, quasi ogni luogo ed anfratto concettuale e spirituale. Hans Magnus Enzensberger, il quale riteneva che l’Apocalisse fosse un afrodisiaco o un sogno inquietante (Angsttraum), mentre era direttore della rivista Kursbuch scrisse: “se ci sembra che la fine del mondo non sia ancora arrivata è perché la si aspetta una volta sola e per tutti, mentre in realtà essa è già in atto, solo un po’ per volta, a rate, a pezzi e bocconi, in tempi e luoghi diversi.” La fine del mondo presentata dal poeta come lento sfaldamento dell’essere umano, della sua vita e personalità. Ma da dove proviene questo scempio e scompiglio?
L’ateismo prende le parti del nichilismo.
L’aver gettato una luce di senso su alcuni tra i processi del cosmo, invece di estendere la cognizione del mistero, pare abbia svuotato il reale della meraviglia (θαυμάζειν) la quale fonda il pensiero filosofico e del timor dei, il quale fonda la teologia biblica: “il timor dell’Eterno è il principio della scienza” (Prov., 1:7), passo chiarito senza mezzi termini pochi versi più avanti “il timor dell’Eterno è odiare il male”, la superbia, l’arroganza e la bocca perversa (8:13). Mancando il senso di ciò che è giusto non si riesce più a trovare la misura di ciò che non lo è.
Nel momento in cui le parole “noi” o “io”, vengono introdotte in un discorso del XXI secolo, queste conducono ad orribili arbitri insensati come quelli in cui si ripetono assurdità plateali quali “la mia verità” o “la tua verità” e nulla viene più detto sulla meraviglia o sul timore, forme della modestia e del limite.
La Wille zur Macht nietzschiana si apre annunciando il racconto della storia dei duecento anni successivi: “Quello che sto raccontando è la storia dei prossimi due secoli. Sto descrivendo ciò che sta arrivando, ciò che non può più arrivare in altro modo: l’ascesa del nichilismo. Was ich erzähle, ist die Geschichte der nächsten zwei Jahrhunderte. Ich beschreibe, was kommt, was nicht mehr anders kommen kann: die Heraufkunft des Nihilismus.” E, sempre per il pensatore di Röcken, “il movimento nichilista è l’espressione della decadenza fisiologica” dell’homo occidentalis. Thomas Bernhard scriverà, magistralmente, che è “la disperazione ad aver logorato la capacità di sentire e di pensare”. Giunge, così, una stanchezza di tutto ed il vivere scende nelle cantine umide del sopravvivere. Eppure già il tardo Sesto pitagorico (ca. II sec. d.C.) aveva lucidamente dichiarato: “Non è la morte, ma una cattiva vita che distrugge l’anima” (91).
La morte non soltanto si pone al centro della volontà di potenza, come si è visto lapalissianamente nello scorso secolo, ma è attraverso l’indifferenza verso essere o non essere che viene perpetrata la morte del senso: “la domanda se il non essere sia meglio dell’essere è, di per sé, una malattia, un segno di declino” – ancora Nietzsche. La perdita del senno e quella del senso procedono sempre in intimo accordo.
Il mantenimento della civiltà e della società liberale.
Qualsiasi dittatura, sia questa materiale, spirituale o entrambe, vuol sempre scacciare la libertà, il coraggio e la dignità con le quali ogni essere umano viene al mondo. Per molti la sconfitta arriva già dai primi anni, quando gli vengono asportate, in sordina, l’autonomia di pensiero e di coscienza. Quasi tutti sanno che una delle frasi più note ripetute dai gerarchi nazisti, quando chiamati a rispondere delle loro atrocità, era: “abbiamo solo eseguito degli ordini”, ossia non potete chiederci di rispondere come degli esseri umani autonomi nel senso e nella coscienza. Tanto più saranno allora estesi i mezzi per istruire alla soggezione (Unmündigkeit), tanto maggiore sarà quella parte di umanità che non parteciperà al ballo della vita vera, coloro ai quali l’autonomia e la libertà saranno state precluse fin dagli inizi.
Il ‘700, attraverso la Rivoluzione americana e le sue molteplici implicazioni per la storia europea, aveva offerto quelle che Henry Adams ha in seguito chiamato le quattro “leggi” di “Resistenza” (Resistance), “Verità” (Truth), “Dovere” (Duty) e “Libertà” (Freedom). Quattro pilastri per una società civile e democratica e per la determinazione intellettuale e politica dell’individuo.
I secoli successivi, piuttosto che il fiorire, hanno invece visto l’avvizzire e la lenta scomparsa, attraverso la mistificazione e la repressione, di questi quattro principi essenziali ed esistenziali della società liberale e democratica. La Prima guerra mondiale ha ucciso un mondo intero – vedi la dolorosa descrizione fatta da Stefan Zweig in quel testamento spirituale che è Il mondo di ieri – che la Seconda guerra ha poi seppellito sotto le macerie di un’Europa devastata. Il periodo postbellico, che ha definito se stesso “della ricostruzione”, anche per evitare di riconoscere la tragicità epocale e le responsabilità di quelle carneficine, ha accuratamente evitato di piangere la perdita di quel mondo passato pretendendo una scissione tra epoche.
Da quelle ceneri non è risorto quasi nulla e solo poche anime di lettori, capaci di conservare la meraviglia negli occhi ed il timore nel cuore, sono ancor’oggi in lutto per la catastrofe, portata avanti attraverso due guerre spaventose ed epocali, che ha seppellito un mondo intero.
Ogni grande intuizione che ha accompagnato i passi della storia della civiltà contiene delle radici (ῥιζώματα) in grado di ricostruire o, restando nella metafora, di far germogliare nuovamente quei percorsi di senso che tali intuizioni sintetizzano. È curioso, ma nuovamente sintomatico, che sia oggi necessario ribadire che una civiltà consiste nell’evoluzione generale nella dignità e nei diritti di libertà e tutto ciò che si pone in maniera contraria a questa direttiva fondamentale è il contrario dell’incivilimento.
Sembra quasi che, nel momento in cui l’homo faber si solleva dalla schiavitù dello stomaco e del bisogno immediato, questi inizi a produrre, per conto suo, opinioni scombinate che danno origine a demenze ed orrori collettivi: dai culti paradossali, ai regimi totalitari, fino ad interpretazioni del mondo e del sé che non rispondono ad altro se non alla fantasia ed alla volontà di potenza.
Chiaramente la socialità è anche costituita dalla somma di queste bizzarrie le quali trovano espressione politica nelle condizioni e costrizioni imposte dalla mitopoiesi della generalità. Anche per questo una civiltà pone sempre l’autonomia e la dignità del singolo in una posizione sovrana rispetto al collettivo; chiunque perori la sovranità extragiuridica del collettivo sul singolo invoca, invece, il trionfo di oclocrazia e totalitarismo. Un individuo che vive nel vuoto, vive già nell’assenza di libertà: una democrazia civile è, invece, sorretta da leggi determinate da un consenso razionale ed informato. È allora il livello medio di una società che determina le condizioni morali generali: la civiltà non è mai un dono, ma è sempre una conquista che dev’essere mantenuta anche attraverso il consenso civile e razionale. Basta che alcune generazioni trascurino di mantenere l’edificio della civiltà e questo inizia a sfaldarsi.
Data la diversità delle culture e degli esseri umani, nessuna civiltà è mai interamente al riparo dalla barbarie poiché la prima è, nella sua essenza, una rara avis difficile da raggiungere e mantenere, mentre l’imbarbarimento è facile, troppo facile.
L’etica vuota dell’Utilitarismo: il mondo che diventa arbitrio.
Lo stato di abbattimento dell’individuo contemporaneo è dapprima spirituale e, poi, intellettuale. All’individuo viene chiesto troppo e poco allo stesso tempo. Troppo, nei termini della sua esistenza, viene sacrificato sull’altare del tempo dedicato alla mera sopravvivenza, consumo e distrazione e troppo poco, nei termini della sua indipendenza morale ed autonomia intellettuale, sviato attraverso ludi e distrazioni perfidamente escogitati per fini di controllo e lucro. L’essere umano finisce intrappolato nella mera crasi tra piacere e dolore: lo scopo dell’esistenza viene scambiato con una corsa tesa a ridurre il dolore e massimizzare il piacere in una gabbia sorretta dai pilastri di ricompensa e punizione i quali assumono le forme di Mammona (μαμωνᾶς) con cui si pretende e crede di poter misurare ogni cosa.
Nel moderno non è più, con Protagora, l’ánthrōpos (ἄνθρωπος) misura di tutte le cose, ma la costrizione ad egli esterna del denaro il quale è, nell’epoca delle valute fiat, una mera convenzione, la quale diventa misura di tutte le cose. Si può qui di conseguenza osservare, senza la possibilità di approfondire, che già il sussistere di meccanismi monetari distanziati dalla fatticità dell’economia delle cose è una minaccia alla libertà dell’individuo.
L’annoso quesito sul senso della vita non è una domanda sull’organizzazione delle cose, ma una profonda richiesta esistenziale da cui dipendono i modi in cui questa verrà dispiegata nel tempo. Ciò che gli esseri umani credono – o viene loro dato da credere per giusto e vero – non è mai irrilevante rispetto all’esistenza individuale ed alla collettività. La simbiosi tra i mores della socialità e le credenze dell’individuo determina le une e le altre al punto in cui è possibile dire che la cura della società risiede nell’individuo e la cura di quest’ultimo nella socialità. Quanto più la socialità viene diretta dall’ideologia e dall’opinione (δόξα) che disprezzano il vero ed i fatti, tanto più l’individuo brancolerà intrappolato entro enormi falsificazioni che ne segnano il destino cognitivo ed esistenziale.
Questo tipo di socialità – “mondo amministrato” direbbero Adorno ed Horkheimer – diventa una forma di afflizione e, quanto più capillari saranno le sue modalità d’intervento sulla persona, tanto più radicali saranno le tribolazioni interiori e l’alienazione generate. Rispondendo indirettamente, senza neppure saperlo, alla fraudolenta distinzione tra “apocalittici e integrati” messa in circolo da Umberto Eco nel 1964, due grandi psicologi umanisti quali Erich Fromm o Alexander Mitscherlich avevano già insegnato che coloro i quali sono maggiormente integrati in tali modelli sociali sono anche i più alienati proprio perché è questa la fondamentale richiesta di tali modelli di amministrazione monocratica della socialità.
La premessa alla partecipazione sociale nei sistemi del mondo amministrato consiste nell’interiorizzazione di qualsivoglia falsificazione del mondo, narrativa o ideologia dominante, anche quando queste si trovino ad essere integralmente contrarie all’evidenza. Per partecipare al mondo amministrato è primariamente necessario alienarsi ed autoingannarsi: credere alla menzogna, al sovvertimento dei fatti ed alle messe in scena sulla realtà come “verità assolute”, oppure “recitare una parte” che, detto in altre parole, significa porsi nel mondo come altro da se stessi. La domanda, qui, non è più “chi sei”, ma cosa viene richiesto che tu sia.
La passività (la minorità kantiana), per chi voglia partecipare al ballo, deve diventare la norma, mentre l’autonomia di pensiero e carattere vengono metodicamente denigrate, criminalizzate o patologizzate. Quando tali richieste includono l’accettazione passiva di qualsivoglia sovvertimento della realtà visibile a favore dell’obbedienza attraverso cui si accede a privilegi e prebende, questo distacco indica il raggiungimento della massima alienazione. Le tirannidi, forme organizzate della violenza, non propongono mai dei veri e propri concetti, ma solo dei diktat o assiomi e partono dal presupposto secondo cui l’essere umano è fatto per essere agito, mentre il pensiero umanista, democratico e liberale, perora la tesi secondo cui è nato libero ed ha il diritto di perseguire la propria realizzazione: Life, Liberty and the pursuit of Happiness. Due visioni della realtà e della storia che si scontrano, con forza sempre maggiore e, purtroppo, sempre più a discapito dell’autonomia individuale.
Natura e vita.
L’ipotesi aristotelica dell’horror vacui – il discorso sul τὸ κενόν dal libro IV della Fisica – che, superando le contestazioni degli atomisti, nella formulazione cinquecentesca diventa il Natura abhorret vacuum (ca. 1530) su cui, nel secolo successivo, inizierà a meditare lo stesso Galilei, può anche esser liberamente interpretata come un ammonimento a far sì che il vuoto non prevalga, onde evitare di venire noi stessi aborriti dalla Natura la quale è misura del Vero e, dunque, del Bello e del Buono. La morte, poi, si affretta sempre a riempire il nulla e questa dovrebbe già essere un’indicazione in sé sufficiente per temerlo.
Friedrich Nietzsche, servendosi di metafora e poetica per giungere al ben noto eterno ritorno dell’uguale, una conclusione forse storica o antropologica ma non certo cosmologica, parte dalla menzogna di ciò che è dritto: “Tutte le cose dritte mentono” e conclude affermando la tesi secondo cui “ogni verità è ricurva” e, dunque, “il tempo stesso è un circolo”. L’uomo di Röcken, attraverso queste singolari correlazioni poetanti, parla di un’ontologia del tempo chiudendo, con le sue pallide dita ormai tremanti dal delirio incipiente, il tempo lineare di Aristotele: fantasie poetiche le quali, invece di fantasticare unicorni, immaginano di piegare anche il tempo ed attraggono, così, gli incerti di sé per i quali le fantasmagorie della volontà sono sempre al centro di tutte le cose.
Qualunque discorso, teoria, immagine o rappresentazione, che non abbia il metro della Natura e dei fatti quale centro da cui partire è mera illusione, fantasia o pericolosa incarnazione della volontà di potenza: Natura semina nobis scientiae dedit, scientiam non dedit (la Natura ci offre i semi della conoscenza, non la scienza).
Il tetro vuoto che dimora nei cuori e nelle menti dell’homo novus nel moderno si può anche misurare dalla distanza esperita, in particolare attraverso lo scetticismo, verso termini quali Buono, Vero o Bello – oggi, se e quando scritti, rigorosamente con la minuscola. Rinnegare i tre trascendentali del pensiero greco significa rigettare anche il dominio e la supremazia della Natura la quale, proprio seguendo e perseguendo la lettura teologica proposta dal libro del Genesi, è il metro del Bene. Il pensiero negativo (negativen Philosophie), con la sua fondamentale separazione tra soggetto ed oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung), ci dice, invece, che la Natura è se non “brutta”, quantomeno “ostile”, foss’anche “cattiva” (questo elemento era, fino al Sette-Ottocento, mera prerogativa di astruse teorie magiche e culti pagani). Qui si tralascia, ancora una volta, il grande dictum platonico secondo cui anche noi siamo Natura. Stig Dagerman, in una poesia, scriverà: “Un cielo, una terra, una prole / possono darti gioia soltanto”. Se la Natura è allora davvero ostile, essa lo è contro se stessa, cioè in contraddizione con se stessa, e questo non ha molto senso, ma è proprio quest’ultimo che viene a mancare in un mondo invasato dalla spettralità del nulla. In tale contesto l’ideologia la fa da padrona in ogni campo e l’ordo naturalis può persino venir presentato come una presunta “ostilità” della Natura contro se stessa.
Per provare ad intendere come la Natura sia invece buona (Tob) la teologia ci dice che questa dev’esser letta attraverso la lente che l’ha formata. La tradizione ebraica aggiunge che vi è qualcosa precedente al momento della creazione biblica infatti, prima di chiamare l’universo all’esistenza, l’Eterno formò la sapienza (Ἁγία Σοφία) al principio dei Suoi atti. Prescindendo dalle enormi implicazioni concettuali di questa fondazione del mondo nella teologia occidentale, questo ci insegna che la Natura dev’esser letta attraverso la sapientia che è scientia, la malta con la quale l’Onnipotente ha creato e determinato il mondo. Curiosamente, i veri padri del nichilismo, mai menzionati in tale contesto, saranno dapprima lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita e, poi, Scoto Eriugena il quale, nel Periphyseon, scriveva: “nel nome nihil viene significata l’ineffabile, incomprensibile e inaccessibile luminosità della bontà divina, ignota a tutti gli intelletti tanto umani che angelici” (III). È partendo da queste profonde intuizioni mistiche originarie che, attraverso i secoli, il tema del nulla verrà rivoltato ed appropriato dai rienniste moderni. Si intende, partendo dai presupposti accennati, come la sapientia di cui parla la teologia che precede il Genesi non è, né può essere, solo scientia, ma dev’essere entrambe. La scientia priva di sapientia è, invece, quella pianta grigia di cui scrive il Goethe nel suo scritto più noto: Grau, teurer Freund ist alle Theorie, / Und grün des Lebens goldner Baum (Grigia è ogni teoria, caro amico, e verde l’albero della vita).
Il diffondersi del male.
Nel contesto qui appena tratteggiato si può constatare, con allibita chiarezza, il diffondersi del male, non certo nella Natura, in sé regno delle sole conseguenze (azione e reazione), quanto nella sordità al senso la quale è, in un primo tempo, solo morale, ma diventa, poi, etica e, alla fine, coinvolge anche la logica e la semantica.
Il diffondersi del male, anche quando questo avviene in sordina e senza le fanfare e le camicie brune, nere o rosse dello scorso secolo, porta con sé sempre il dolore, dapprima psicologico e spirituale (nevrosi, ansie, fobie, alienazione, regressione, depressione, etc.), poi materiale. L’ego, in quanto particolare manifestazione emergente dall’io, contiene le ferite dell’emergere della coscienza in una socialità sperduta tra i deliri della volontà di potenza.
Dai succinti accenni qui presentati si può notare come il trionfo dell’ego sia forzatamente nichilista ed in tale nichilismo si annidano la forma ed il sintomo della malattia del moderno – forse la manifestazione più gravida di conseguenze di questa grave affezione dello spirito che pone il vuoto quale forma del pieno.
Se da Socrate, fino ad Agostino o Rousseau, passando per Montaigne, l’ego viene contrastato come una forma vuota da cui provengono solo degli echi, il grido dell’insignificanza della volontà, nel moderno questo viene elevato su piedistalli sempre più alti, portando il nulla sulle vette del mondo.
Un ego vuoto e privo di sostanza finisce, però, per riconoscere solo l’eco: la mera vita biologica in balia del fato che è una nuda miseria, non più la canna pensante di Pascal o il viandante sul mare di nebbia del pittore Caspar David Friedrich: “S’immagini un gran numero di esseri umani, tutti in catene e tutti condannati a morte, alcuni dei quali siano ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri. Coloro che restano, vedono la propria sorte in quella dei propri simili; e, guardandosi l’un l’altro con dolore e senza speranza, aspettano il proprio turno. È questa l’immagine della condizione umana” (Pascal).
Ad un certo punto i giorni non si susseguono più, ma si ripetono e basta: quello è il momento in cui l’individuo sprofonda in una disperazione in cui la sua vita non è più uno svolgersi, quanto un continuo ripetersi. Ecco il significato più nascosto, e mai prima dichiarato, dell’eterno ritorno dell’identico che rappresenta, con una chiarezza agghiacciante, il trionfo della disperazione umana di fronte ad un cosmo in cui non riesce più a riconoscere null’altro dall’eco del nulla: pede poena claudo, il castigo [giunge] con piede zoppicante (Orazio). Quando, poi, il vuoto ha conquistato ogni anfratto, sopraggiunge la morte, l’inquietante sgozzamento descritto da Pascal.
Il “male” – categoria ormai desueta e quasi dismessa –, per conquistare il cuore degli esseri umani, come insegna in maniera paradigmatica il personaggio ben moderno del Faust, passa attraverso la volontà di potenza, il vuoto e la morte. Tutto viene nullificato nel vuoto. Le narrative, le messe in scena, i giochi linguistici ed i racconti che si sostituiscono ai fatti ed alla realtà per mostrarla altrimenti, si mostrano allora come il prodotto di una volontà deforme la quale costringe la mente a credere e seguire dei phantasmata i quali conducono, dritti e senza scampo, al deserto della ragione. Attraverso tali sogni ad occhi aperti l’essere umano finisce per respingere la propria natura e fragilità, rigettando la caducità naturale e, nella più parte dei casi, neppure i sogni gli vengono più in soccorso: “I could be bounded in a nutshell, and count myself a king of infinite space, were it not that I have bad dreams” (Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni, Amleto).
Compito di chi veglia diventa, hic et nunc, quello di continuare a tenere acceso il lumicino della razionalità che si nutre del senso, anche nel mezzo di questa orrenda tempesta signifying nothing (che non significa ormai nulla, Macbeth).