L’infantilizzazione della morte
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UNA DELLE CONSEGUENZE NEGATIVE DELLA MODERNITA’
Una delle tante conseguenze sociali della modernità e delle sue funeste credenze imposte dall’Illuminismo in poi è il profondo cambiamento nel rapporto tra la società, e ovviamente i suoi singoli membri, e la morte. Il fenomeno ha radici e cause remote assai profonde, che attengono alla progressiva scristianizzazione (ma sarebbe meglio dire desacralizzazione) del nostro mondo, al feroce individualismo impostoci dalle ideologie dominanti e alla perdita collettiva di consapevolezza circa la realtà dell’essere umano, composto di anima e corpo e con un destino ultraterreno. Non poco peso ha avuto l’obliterazione, nella chiesa post-conciliare, del tradizionale insegnamento dei Novissimi: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso, così come quello relativo al Purgatorio e al suffragio delle anime purganti.
In sostanza, nel mondo contemporaneo assistiamo a una rimozione della morte, come ben descritto dallo storico Phippe Ariés nel suo testo “Storia della morte in Occidente”: “La morte è divenuta l’innominabile. Ormai tutto avviene come se la morte non esistesse. Tecnicamente, ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita, ma in realtà, nel fondo del nostro cuore, ci sentiamo immortali.” Da un punto di vista cattolico, l’indimenticato filosofo Emanuele Samek Lodovici, che ci lasciò prematuramente nel 1981, ci ammonisce sulla “pornografia della morte, la pornografia del lutto, il tabù della morte: della morte non si deve parlare.” E ci ricorda che nella società cristiana cancellata dalla modernità “la morte, il morire, l’accoglimento del moribondo erano un fatto normale, un fatto domestico, un fatto pubblico.” E, ancora, richiama le “immagini di morenti circondati dai parenti nella loro camera da letto, dove c’erano anche i bambini. Tutta la letteratura antica ci fa vedere che coloro che muoiono, muoiono pubblicamente, e che tutta la società li aiuta a morire, ritualizzando questo passaggio”. Un altro grande intellettuale cattolico, Fausto Gianfranceschi, ha scritto: “Il divieto di pensare la fine ha ucciso i fini. Rimangono unicamente i mezzi.”
Oggi, il terribile auspicio di molti è quello di una morte sul colpo, “così non ci penso”, senza sofferenza. Esattamente opposta era la visione della morte nella società cristiana dove una morte improvvisa era vista con terrore: “A subitanea morte, libera nos Domine”, pregavano, perché una morte così sopraggiunta impediva la consapevolezza, la preparazione e il pentimento. Nel dialetto milanese esiste l’espressione: “Brutt me la mort improvisa”, “brutto come la morte improvvisa”. Nel mondo premoderno, ancora cristiano, si sperava in una “buona morte”, che implicava, appunto, preparazione, pentimento per i propri peccati, l’Estrema Unzione e la presenza confortante dei familiari. L’esatto contrario dell’ospedalizzata, fredda e solitaria morte dei nostri tempi.
Certo, ha contribuito non poco alla banalizzazione e alla de-drammatizzazione della morte la proibizione, anche per le Messe funebri, della liturgia di sempre, quella preconciliare, solenne e severa, con i paramenti neri dell’officiante, la bara appoggiata per terra, incentrata sulle preghiere per la salvezza eterna del morto. Durante la liturgia, nessuna apologia del peccatore defunto era consentita, chiunque fosse.
Assai esemplare, a questo proposito, era il rituale della parte finale dei solenni funerali dei sovrani asburgici: l’inumazione nella cripta dei cappuccini, la tradizionale ultima dimora degli imperatori. La bara era accompagnata e preceduta dal ciambellano di corte che bussava alla porta della cripta dietro la quale si trovava il padre guardiano, che chiedeva in latino: “Chi è?”. Il ciambellano rispondeva pronunciando la serie completa di titoli che spettavano di diritto al defunto Asburgo. Al termine dell’elenco, il cappuccino replicava “ignosco”, “non lo conosco”. Il ciambellano bussava una seconda volta e alla domanda del frate annunciava la presenza di Sua Maestà Imperiale, aggiungendo una serie ben più breve dei titoli. Nuovamente il frate rispondeva “non lo conosco”. Dopo una breve pausa il ciambellano bussava ancora. Il priore chiedeva per la terza volta: “Chi è?”. Risposta: “Un povero e miserabile peccatore”. Al che il padre guardiano apriva la porta e consentiva alle spoglie mortali dell’imperatore di accedere alla sua ultima dimora.
Oggi, nelle messe funebri contemporanee, è invece invalso l’uso delle eulogie da parte di amici e familiari, prassi di origine protestante. Brevi raccontini, ricordi di estremo saluto, talvolta imbarazzanti, rotti da inevitabili commozioni, spesso noiosi. Per non parlare dell’obbrobrio degli applausi, dentro e fuori la chiesa.
Chi scrive poi, e ci si perdoni la voluta faziosità liturgica e musicale, trova particolarmente irritante l’ultramelodico, immancabile canto “Io credo, risorgerò/questo mio corpo vedrà il Salvatore”, non privo di qualche ambiguità dottrinale (presunzione di salvarsi senza merito?) che ci viene propinato come “tradizionale”, in realtà composto e scritto nel 1966 da tale Gino Stefani, descritto come esponente della “riforma liturgica post-conciliare nell’ambito musicale” che, secondo gli esegeti, riscriverebbe probabilmente un passaggio del libro di Giobbe (ma una breve ricerca non lo conferma). Quanto siamo distanti dalla solennità, dalla gravitas del Dies Irae usato nella Messa dei defunti nel Vetus Ordo, sequenza medioevale che rammenta, a noi in vita, che verrà inesorabilmente per tutti un giorno del Giudizio. Bellissimo e commovente nel canto gregoriano e ispiratore, nei suoi versi, dei capolavori di Mozart e Verdi.
Negli ultimi anni poi, in perfetta coerenza con un costante e progressivo processo di involgarimento e decivilizzazione della nostra società e dei nostri comportamenti, assistiamo a un ulteriore passo nella banalizzazione della morte e dei funerali: una sorta di infantilizzazione delle funzioni funebri. Specie in relazione a morti in circostanze drammatiche e di pubblica rilevanza, come ad esempio le vittime dei cosiddetti femminicidi – orribile e falsificante neologismo imposto dall’ideologia egemone – siamo costretti ad assistere a funerali che sono caratterizzati da una sorta di regressione infantile: un profluvio di palloncini bianchi in cielo, bigliettini, disegnini, cuoricini, peluche di ogni tipo, striscioni come allo stadio. Bare bianche, una volta riservate ai bambini, anche per ultraventenni e oltre. La copertura mediatica prevede immancabili interviste ad amici e familiari, nelle quali il defunto, o più spesso la defunta, viene descritta come “solare”, aggettivo che, misteriosamente, viene usato solo in questi casi. Omelie insulse e prive di ogni riferimento alla tradizionale “teologia della morte” della Dottrina cattolica. Applausi obbligatori all’arrivo del feretro, poi in chiesa, poi fuori dalla chiesa, poi alla partenza del carro funebre.
Certo, questa infantilizzazione della morte può essere vista come una componente di una più generale infantilizzazione dell’Occidente, che già nel 1925 era stata denunciata da José Ortega y Gasset: “Non v’è dubbio: l’Europa è entrata in una fase di puerilità”. E’ il caso degli appartenenti alle ultime generazioni che negli Stati Uniti vengono definiti snowflakes, “fiocchi di neve”, per la loro fragilità e friabilità caratteriale ed emotiva, incapacità di affrontare situazioni avverse o le normali frustrazioni che la vita inevitabilmente presenta, affetti da patologica ipersensibilità che impongono a molte università di premettere dei warning agli inizi dei testi di Shakespeare, di Ovidio, persino di Mark Twain, ma non solo, perché presenterebbero contenuti cosiddetti razzisti, sessisti o presunti violenti che potrebbero “turbare” l’animo delicato di questi fanciullini mal cresciuti. O il fatto, più generale, che in tutto l’Occidente l’ingresso nell’età adulta si sposta sempre più in là negli anni, fenomeno parallelo al progressivo e inarrestabile invecchiamento della società a causa del consumistico ed egoistico rifiuto degli europei di concepire figli. Per tornare alla morte e al mondo cattolico, è indicativo che nei “catechismi” contemporanei per i più piccoli vi sia una sorta di tabù riguardo al nostro destino ultraterreno, al premio o al castigo, all’Inferno e al Paradiso. Non se ne parla, anche in questo caso per non turbare gli animi dei poveri bimbi ed evitare che vedano nel cattolicesimo una religione “cupa e punitiva”. Ma analoghe considerazioni possono essere fatte anche in quelle che vengono definite, con orribile, postconciliare espressione “catechesi per adulti”.
Purtuttavia dovrebbe risultare evidente che, in un’Europa declinante, decivilizzata, devirilizzata e sempre più disperata che sembra volersi strappare di dosso la sua identità più profonda per scegliere un necrofilo nichilismo di odio per la vita, solo se sapremo riconquistare attraverso un’opera di restaurazione spirituale, pure nei comportamenti concreti, il valore ultimo, anche in senso letterale, della morte, potremo comprendere di nuovo il significato vero della nostra vita di creature e il suo fine metafisico.