Poetica, transumanesimo e Valditara
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VALORI NAZIONALI DELLA RECENTE RIFORMA SCOLASTICA
La riforma scolastica annunciata nei giorni scorsi dal ministro dell’istruzione, Giuseppe Valditara, suggerisce una volontà, se non di recuperare, perlomeno di custodire il patrimonio «culturale» (linguistico, artistico e religioso) dell’Italia.
Il patrimonio è invocato in risposta ad una crisi dell’educazione tale da non poter più essere del tutto ignorata dai cosiddetti poteri forti. Perché la crisi contemporanea ha gravi ramificazioni socio-politiche: la coesione socio-politica si perde laddove l’educazione nazionale è concepita, come lo è da decenni oramai, in termini prevalentemente, se non addirittura esclusivamente tecnici.
Dato che il patrimonio italiano è un patrimonio principalmente umanistico avente carattere sostanzialmente poetico, la recente riforma dovrebbe avere materiale in abbondanza per ripristinare il poetico nell’istruzione, l’obiettivo formale essendo quello di recuperare ciò che un orientamento tecnologico della vita ha teso ad oscurare.
Tuttavia, il ripristino del poetico è accompagnato da una clausola d’incidenza capitale. Il poetico è ripristinato come valore nazionale che dovrebbe consentirci di far fronte ad una crisi di civiltà senza precedenti. Perché la crisi odierna non concerne semplicemente una tradizione tra le altre, ma la nozione stessa di tradizione sotto l’influenza dell’ascesa e del consolidamento della tecnocrazia.
La poesia viene quindi considerata estremamente utile, non come guida (si pensi qui al Virgilio della Commedia dantesca), ma come terapia per affrontare l’ipoteticamente inevitabile avanzata planetaria del transumanesimo.
Vi sono buone ragioni per restare scettici circa la riforma: non le ragioni avanzate dai progressisti che denigrano la riforma come nefastamente reazionaria, ma ragioni che riguardano ciò che la riforma ha in comune con il progressismo imperante. Perché la poesia, come la religione, non è semplicemente un valore che dovremmo custodire per resistere all’effetto devastatore della tecnologia su coscienze ed identità nazionali. La poesia, come ci ricorda sulla scia del platonico Dante il buon Giambattista Vico, è la nostra apertura naturale alla trascendenza divina, a un essere aldilà delle apparenze, all’abisso presupposto da ogni apparenza, culla irriducibile del pensiero, della riflessione, dell’intendimento.
La poesia come «nostro valore» è un palliativo che presuppone il trionfo della tecnologia nell’era della Morte di Dio. La poesia come «nostra prerogativa» è un cavallo di Troia usato dai tiranni per adulare popolazioni schiavizzate, per distrarle dalla loro condizione servile, per abbellire la loro servitù facendola apparire equivalente alla libertà suprema.
Ripristinare la poetica in un contesto transumanista non significa ripristinare la poetica stessa, ma la sua mera ombra, che, quando astratta dal suo contesto originale, uccide al pari della «lettera» spiritualmente alienata di cui ci parla con rara perspicacia San Paolo in 2 Corinzi 3,6.
Il vero problema che affrontiamo oggi non è una perdita di alfabetismo, ma un’alienazione generale dal contesto spirituale originale della civiltà, così come di ogni produzione poetica.
La nostra crisi reale non può essere quantificata dai nostri utilitaristi «esperti scientifici», perché la nostra vera crisi è pre-scientifica, concernente un abbandono dell’universo pre-scientifico come vera sede d’intendimento e quindi di una vita che sola è intrinsecamente degna di essere vissuta.
Accogliamo quindi la recente riforma, ma con un bel pizzico di sale, per evitare che la riforma ci inganni facendoci confondere «la lettera» con «lo Spirito».
Recuperare la lettera prima dello Spirito, o come mezzo per recuperare lo Spirito, significa seguire l’esempio della Cina maoista degli anni ’80: in seguito alla spietata decimazione di templi dedicati a Buddha e a Confucio, entrambi i personaggi furono magicamente «resuscitati» come simboli di una Cina nuova, prospera e radicalmente machiavellica.
Diffidiamo, quindi, dei palliativi che, quando vengono elargiti sotto l’egida di tecnocrati, tendono a servire soprattutto come mezzi per cooptarci nell’accettare il nemico dell’umanità come amico. Perché il nuovo contesto della nuova riforma non è quello teologico-politico della civiltà classica.
La nuova poesia non serve Dio o una verità divinamente trascendente, ma il regime degli strumenti del «problem solving», i «modi ed ordini nuovi» di cui ci avverte Machiavelli, unificati sotto un imperativo tecnologico universale.