Antonio Gramsci e gli errori della storia

Antonio Gramsci e gli errori della storia

di Francesco Bellanti*

NASCEVA IL 22 GENNAIO 1891, AD ALES, IN SARDEGNA, ANTONIO SEBASTIANO FRANCESCO GRAMSCI (MORIRÀ IL 27 APRILE 1937, A ROMA), UNO DEI PIÙ PODEROSI INTELLETTUALI DEL XX SECOLO

Qualunque sia il giudizio politico che si voglia dare su Antonio Gramsci, non si può non riconoscere che egli è stato uno dei più grandi intellettuali del XX secolo, e che soprattutto per questo va studiato, anche da chi non condivide le sue idee. Chi scrive, per coerenza, deve ribadire che, sul piano politico, Gramsci ha commesso un grave errore politico e storico, la scissione di Livorno del 1921.

Pur riconoscendo l’importanza straordinaria del Partito Comunista Italiano nella lotta per la conquista dei diritti civili dei lavoratori, dell’evoluzione democratica e del progresso della società italiana, chi scrive ha sempre sostenuto – e in questo è in buona compagnia – che nel 1921 anni fa si consumò la più grande tragedia della sinistra europea, di cui soprattutto oggi si piangono le conseguenze.

Ora, è legittimo che chi è o è stato comunista in questi giorni ricordi con gioia la nascita di un partito che ha segnato la sua vita, ma, chi scrive deve ribadire che questi sono anche giorni che dovrebbero far riflettere sulle mille scissioni del socialismo italiano che hanno ritardato l’emancipazione dei lavoratori e il progresso della società.

In quel famoso congresso di Livorno, il capo del socialismo italiano, il fondatore del Partito Socialista, il politico, il giornalista, più volte deputato del Regno, Filippo Turati, il 19 gennaio 1921, al Teatro Goldoni, durante il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, disse: “Fra qualche anno il mito russo, che avete il torto di confondere con la rivoluzione russa, alla quale io applaudo con tutto il cuore …. il mito russo sarà evaporato ed il bolscevismo attuale o sarà caduto o si sarà trasformato… Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo, che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile, e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medio evo… Ond’è, che quand’anche voi avrete impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe. E dovendo fare questa azione graduale, perché tutto il resto è clamore, è sangue, orrore, reazione, delusione; dovendo percorrere questa strada, voi dovrete fino da oggi fare opera di ricostruzione sociale”.

Qualche anno fa, in un’intervista, il grande giornalista e scrittore Ezio Mauro, autore di un libro, La dannazione, scritto – come tanti altri libri – in occasione del centenario della scissione socialista che avvenne a Livorno nel 1921 e che vide la nascita del Partito Comunista d’Italia, sostenne che quella scissione fu un suicidio politico. Sostenne anche che il centenario avrebbe dovuto essere una bella occasione per una riflessione, non solo su quella che tanti storici ritengono la tragedia politica della sinistra italiana, ma anche su un secolo di lotte per il progresso della società italiana.

Il Partito Socialista era allora il più grande partito politico italiano con circa 170 deputati su 508, poteva formare un governo con i popolari che avevano più di 100 deputati. Questi pensieri percorrevano anche la mente dell’enfant prodige del socialismo riformista italiano, Giacomo Matteotti, assassinato dal fascismo il 10 giugno 1924, che Gramsci ingenerosamente definiva “il pellegrino del nulla” e sul quale non disse nemmeno una parola nei Quaderni dal carcere. Senza scendere nei piccoli particolari, vinse quel congresso l’ala riformista che aveva in Filippo Turati un grande capo politico e che rifiutò il diktat di Lenin di espulsione dei riformisti e la minoranza comunista abbandonò il congresso e andò a fondare in un teatro vicino il nuovo partito.

Turati era accusato di non avere energia risolutiva anche se aveva grande ingegno. Turati – che era attaccato da tutti, dai comunisti e dai massimalisti, oltre che dai fascisti naturalmente – intervenne e risultò vincitore con uno dei più grandi discorsi della storia del socialismo, col quale si distaccò nettamente dalla minoranza comunista sia per il rifiuto di ogni soluzione rivoluzionaria, sia per la accanita difesa del riformismo socialista in una visione moderna che rifiutava il mito russo, dietro il quale si celava il nazionalismo, e che invece propugnava una costante attività quotidiana di educazione delle persone. Il suo più profondo dissenso ideologico comunque riguardava il principio del ricorso alla violenza, che era proprio delle minoranze e del capitalismo, e rimarcò che la dittatura proletaria doveva essere di maggioranza, cioè democratica, altrimenti si sarebbe trasformata in mera oppressione.

Obiettivamente, in quegli anni una rivoluzione comunista sul tipo di quella bolscevica, non era possibile. Era nato un grande partito popolare cattolico, il sogno di don Luigi Sturzo, si stava scatenando nelle città e nelle campagne, in tutta Italia, la violenza fascista, dominava la società italiana una forte borghesia agraria e industriale di orientamento conservatore, le forze moderate liberali erano ancora forti, insomma una rivoluzione come quella bolscevica non era possibile.

Quel congresso, insomma, fu la conseguenza più devastante dell’eterno conflitto tra riformismo e radicalità che avrebbe dilaniato sempre la sinistra italiana. Tutto questo, come dicevamo, mentre già imperversava lo squadrismo fascista.

Tutti commisero errori, ma i più gravi, a nostro avviso, furono di uomini di grande ingegno come Gramsci (che al congresso non parlò per dissidi interni con i suoi compagni comunisti e che secondo molti era l’unico in grado di impedire la scissione), Bordiga, Terracini, Togliatti che fecero prevalere gli interessi della Russia bolscevica a quelli nazionali.

Dice Ezio Mauro che i socialisti avevano le ragioni della storia ma non le hanno saputo tradurre nella politica. E che i comunisti poi hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. Nulla di più esatto. Mentre in Europa ci furono esperienze socialiste più coerenti, come per esempio quella del Partito Socialdemocratico di Germania, il più antico partito politico dell’Europa, ancora esistente, che, nato nel 1863, nonostante le scissioni, si trasformò da partito marxista nel più grande partito socialista democratico moderno, in Italia l’intransigenza rivoluzionaria di uomini come Bordiga favorì l’avvento del fascismo e frenò l’evoluzione della società italiana del dopoguerra.

Dopo quella scissione ce ne fu un’altra, nell’ottobre del 1922, qualche giorno prima che prendesse il potere con la Marcia su Roma Benito Mussolini, quella del Congresso di Roma, in cui i riformisti di Turati, messi in minoranza dai massimalisti, fondarono il Partito Socialista Unitario che elessero a segretario Giacomo Matteotti. Le scissioni del secondo dopoguerra, poi, sono un’altra storia. Torniamo a Gramsci.

Chi scrive ha letto molte sue opere, soprattutto i Quaderni dal carcere, e vi ha trovato uno spessore intellettuale di levatura eccezionale. Nonostante gli errori di cui abbiamo parlato, Gramsci va studiato – anche da chi non si riconosce nelle sue idee – perché egli non è stato solo un originale intellettuale marxista ma anche un acuto osservatore delle dinamiche della società moderna, un filosofo e giornalista profondo, un critico letterario di rara intelligenza e profondità, forse ancora più profondo dei critici letterari di professione del suo tempo.

Illuminanti, per esempio, sono stati i suoi interventi critici su Manzoni, Leopardi, Pirandello e il teatro (del grande drammaturgo disse che la grande novità del suo teatro era la rottura col teatro cattolico). Proprio per questo non si riesce ancora a capire come sia stata possibile, da parte sua, la decisione di fondare il Partito Comunista d’Italia e la scissione dal Partito Socialista, noi pensiamo che sia stata originata da un’esaltazione emotiva della rivoluzione sovietica come momento fondante del nuovo ordine mondiale.

Per suoi studi storici, tuttavia, specialmente quelli sul Risorgimento, per il suo pensiero, per esempio il concetto di egemonia, per la sua analisi complessiva della società, anche se allora gli sfuggì forse la complessità del fascismo, per il suo contributo alla conoscenza della letteratura italiana, noi crediamo che sia un autore che meriti di essere più studiato dai giovani e insegnato nelle scuole.

In un passo dei Quaderni dal carcere, Gramsci precisa preliminarmente che non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens – lasciando implicito che questa distinzione è una delle tante distorsioni operate dal capitalismo – e propone l’idea di un’intellettualità diffusa, un intellettuale di tipo nuovo non separato per mestiere e appartenenza di classe dal resto della società, ma proveniente da questa e legato alla classe lavoratrice dal compito di costruire attivamente la sua emancipazione… Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali.

“Nel mondo moderno, l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale, anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l’Ordine Nuovo, settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti ed era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore” (G. Giudici).

Gramsci dunque, come sostengono oggi anche politici e intellettuali di destra, va studiato – soprattutto per le sue idee sulla cultura e sulla società – per comprendere meglio la modernità, anche se le ragioni della storia, a sinistra e sulla via del socialismo democratico, hanno dato ragione a Giacomo Matteotti.

 

* L’articolo che avete letto è uno studio che riporta anche le riflessioni personali dell’autore. I contenuti non necessariamente sono condivisi dalla Redazione. Informazione Cattolica, infatti, non censura i suoi collaboratori e, su questioni che non afferiscono ai dogmi di fede, è aperta alla discussione e alla pubblicazione di teorie contrapposte. Siamo un mezzo di comunicazione non mainstream. Fossimo stati anche noi un mezzo di comunicazione del mainstream avreste letto articoli che riportano le opinioni di una sola “campana”.

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