Sinistra e antisemitismo
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LE ORIGINI DELL’ANTISEMITISMO MARXISTA
L’antisemitismo è un fenomeno antico e multiforme, radicato in stereotipi, pregiudizi religiosi, economici e culturali. Quando si tenta di analizzare questo tema all’interno della sinistra italiana, è necessario muoversi con estrema attenzione, evitando semplificazioni ma anche omissioni, come quelle che dimenticano che il pensiero marxista, le dinamiche geopolitiche del Novecento e le contraddizioni ideologiche della sinistra italiana hanno contribuito a una deriva antisemita.
Per comprendere l’antisemitismo della sinistra, è necessario partire da una delle sue principali matrici ideologiche: il marxismo. Sebbene il marxismo si presenti come una teoria emancipatoria che rifiuta ogni forma di oppressione, la sua storia e il pensiero dei suoi fondatori presentano alcune ambiguità.
Uno dei testi più controversi di Marx è il saggio del 1844 “Zur Judenfrage” (Sulla questione ebraica), scritto in risposta a Bruno Bauer. Bauer sosteneva che gli ebrei dovessero rinunciare alla loro identità religiosa per ottenere l’emancipazione civile. Marx, pur criticando Bauer, introduce una riflessione problematica sugli ebrei e sul loro ruolo nella società capitalista.
Nel testo, Marx associa la figura dell’ebreo con il capitalismo, descrivendo il “culto dell’ebreo” come il “culto del denaro”. Questo passaggio ha generato intense critiche, poiché si presta a una lettura antisemita.
Ad esempio, Marx scrive: “Qual è il fondamento profano dell’ebraismo? Il bisogno pratico, l’interesse personale. Qual è il culto profano dell’ebreo? Trafficare. Qual è il suo dio profano? Il denaro”.
Sebbene molti studiosi interpretino queste parole come una critica al capitalismo piuttosto che agli ebrei in quanto tali, il linguaggio usato da Marx attinge a stereotipi antisemiti diffusi nella Germania del suo tempo. La figura dell’ebreo viene ridotta a una caricatura del mercante capitalista, un’immagine che, sebbene contestualizzabile, ha alimentato malintesi e accuse.
Un’altra ambiguità del marxismo riguarda la sua visione universalista. La teoria marxista si propone di abbattere le differenze culturali, religiose e nazionali per favorire una società basata sulla lotta di classe. Questo approccio ha spesso visto le identità particolari, come quella ebraica, come un ostacolo all’emancipazione collettiva. L’idea che gli ebrei dovessero “assimilarsi” per partecipare pienamente al progetto socialista ha portato alcuni esponenti marxisti a ignorare o sottovalutare le specificità dell’identità ebraica, contribuendo a forme di esclusione.
Se Marx presenta ambiguità, Lenin e Stalin incarnano esempi concreti di come il marxismo sia stato utilizzato per giustificare, o almeno tollerare, atteggiamenti antisemiti. Lenin condannò esplicitamente l’antisemitismo come un’arma del capitalismo per dividere la classe operaia. Tuttavia, l’Unione Sovietica di Stalin adottò politiche ambigue e spesso contraddittorie.
Durante gli anni Trenta e Quaranta, il regime stalinista sostenne formalmente l’uguaglianza tra i popoli, ma nella pratica promosse purghe che colpirono anche ebrei accusati di “cosmopolitismo senza radici”. La lotta contro il “cosmopolitismo” si trasformò in una campagna antisemita mascherata da critica politica, contribuendo a diffondere il sospetto verso gli ebrei come elementi “borghesi” o “deviati”.
Sotto Lenin la propaganda ufficiale condannava apertamente i pogrom, gli attacchi violenti contro le comunità ebraiche che avevano macchiato la Russia zarista, e il governo sovietico adottò misure per promuovere l’uguaglianza formale tra i cittadini.
Tuttavia, questa posizione ideologica non impedì la diffusione di sentimenti antisemiti all’interno della società sovietica e persino tra i ranghi del Partito. L’eredità culturale dell’antisemitismo zarista era difficile da estirpare. Inoltre, la propaganda sovietica spesso accusava gli oppositori politici di essere – come detto – agenti della “borghesia ebraica”, creando ambiguità pericolose. In alcune aree rurali, le autorità locali tollerarono o addirittura ignorarono le violenze antisemite, tradendo così gli ideali del governo centrale.
Se sotto Lenin l’antisemitismo era una contraddizione latente, sotto Stalin divenne una politica di Stato, benché mascherata da ragioni ideologiche e politiche. Negli anni Trenta e Quaranta, l’antisemitismo si intrecciò con la paranoia del regime stalinista, che vedeva complotti ovunque.
La Seconda Guerra Mondiale segnò un momento cruciale. La vittoria sovietica sul nazismo comportò l’emersione di un antisemitismo di Stato più esplicito. Pur avendo salvato milioni di ebrei durante l’occupazione nazista, Stalin cominciò a vedere gli ebrei sovietici come potenziali agenti del sionismo internazionale e collaboratori degli Stati Uniti. Questo sospetto si intensificò dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, inizialmente sostenuto dall’URSS ma presto percepito come una minaccia geopolitica.
Negli ultimi anni del suo governo, Stalin avviò vere e proprie purghe antisemite. Tra gli esempi più noti vi è la campagna contro il “Complotto dei Medici” nel 1952-1953, durante la quale molti medici, prevalentemente ebrei, furono accusati di cospirare per assassinare i leader sovietici. Queste accuse, basate su prove fabbricate, portarono a un’ondata di arresti e processi sommari. Sebbene Stalin morisse nel marzo 1953 prima che le esecuzioni venissero portate a termine, il clima di terrore che aveva creato lasciò cicatrici profonde.
L’antisemitismo in Unione Sovietica non fu mai dichiarato apertamente come politica ufficiale, ma la sua presenza era evidente nelle pratiche discriminatorie, nella propaganda e nelle politiche di esclusione. Gli ebrei sovietici furono spesso esclusi da posizioni di rilievo, subendo discriminazioni nei settori accademici e politici. Anche la soppressione delle istituzioni culturali ebraiche contribuì a un progressivo soffocamento dell’identità ebraica.
Questo capitolo oscuro della storia sovietica ci ricorda che l’uguaglianza proclamata non è mai sufficiente se non viene accompagnata da una pratica coerente e da un rifiuto deciso di tutte le forme di odio. E in Italia?
La sinistra italiana del dopoguerra si trovò divisa rispetto alla nascita dello Stato di Israele. Inizialmente, molti socialisti e comunisti italiani salutarono con favore la creazione di Israele come un esperimento socialista e progressista. Tuttavia, con il consolidarsi dell’alleanza tra Israele e le potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti, la sinistra italiana cambiò posizione, interpretando Israele come un avamposto dell’imperialismo.
Questo cambiamento coincise con l’ascesa della questione palestinese. A partire dagli anni Sessanta, il Partito Comunista Italiano (PCI) e altre forze della sinistra radicale sposarono apertamente la causa palestinese, spesso utilizzando una retorica che, pur essendo formalmente anti-israeliana, scivolava in stereotipi antisemiti. Ad esempio, in alcuni casi, si descrivevano Israele e i suoi sostenitori come manipolatori di un sistema globale dominato dal denaro e dal potere, richiamando antichi pregiudizi.
Un momento particolarmente critico fu rappresentato dagli anni Settanta, quando alcune frange estremiste della sinistra italiana si avvicinarono al terrorismo. Gruppi come le Brigate Rosse sostennero apertamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e giustificarono azioni violente contro obiettivi israeliani o ebraici, considerati “nemici del popolo”. Questo legame con il terrorismo palestinese accentuò ulteriormente le accuse di antisemitismo contro settori della sinistra.
Oggi, gran parte delle accuse di antisemitismo contro la sinistra italiana derivano dalla sua critica a Israele. È importante distinguere tra opposizione alle politiche del governo israeliano – ad esempio riguardo agli insediamenti nei territori occupati – e vere e proprie manifestazioni di odio verso gli ebrei. Tuttavia, il confine è spesso labile.
In alcuni casi, manifestazioni anti-israeliane si sono trasformate in episodi di antisemitismo esplicito. Ad esempio, in occasione di conflitti armati in Medio Oriente, sono stati segnalati episodi di vandalismo contro sinagoghe o insulti antisemiti durante manifestazioni pro-palestinesi.
Un altro problema riguarda alcune teorie molto in auge nella sinistra radicale. L’idea di un “complotto sionista” – non dimostrato naturalmente – che controlla l’economia mondiale o manipola la politica internazionale è stata talvolta accettata acriticamente, contribuendo a rafforzare stereotipi antisemiti.