Foibe, esodo e Giorno del ricordo
di Francesco Bellanti
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IL GIORNO DEL RICORDO, PER “CONSERVARE E RINNOVARE LA MEMORIA DELLA TRAGEDIA DEGLI ITALIANI E DI TUTTE LE VITTIME DELLE FOIBE, DELL’ESODO DALLE LORO TERRE DEGLI ISTRIANI, FIUMANI E DALMATI NEL SECONDO DOPOGUERRA E DELLA PIÙ COMPLESSA VICENDA DEL CONFINE ORIENTALE”
Il primo disegno di legge sull’istruzione del Giorno del Ricordo recava le firme di un nutrito gruppo di deputati di vari gruppi parlamentari (prevalentemente di Alleanza Nazionale e Forza Italia, oltre che dell’UDC e della Margherita). I primi firmatari furono Roberto Menia e Ignazio La Russa, entrambi in passato militanti del Movimento Sociale Italiano (MSI).
Il 10 febbraio 2004 il senatore della Margherita, Willer Bordon, che veniva dal Partito Comunista, poi PDS, Progressisti, Ulivo, presentò un disegno di legge di contenuto molto simile.
Il primo disegno di legge a essere discusso fu quello presentato alla Camera: la proposta di Bordon venne di conseguenza assorbita ad esso nella fase del passaggio parlamentare al Senato.
L’iter parlamentare del provvedimento ebbe termine il 16 marzo 2004. Regolarmente promulgata dal Presidente della Repubblica, la legge 30 marzo 2004, n. 92, fu pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” n. 86 del 13 aprile 2004.
Con i massacri o eccidi delle Foibe si fa riferimento alle migliaia di italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe dalle milizie della Jugoslavia di Tito verso la fine della Seconda guerra mondiale.
Le foibe altro non sono che delle grandi feritoie o inghiottitoi carsici, talvolta di dimensioni spettacolari, tipici della regione Giulia. Nell’Istria se ne conterebbero circa 1700.
Il termine è almeno parzialmente improprio, dato che solo una minima parte delle vittime fu occultata nelle foibe, mentre la maggior parte perse la vita in altro modo (nelle prigioni o nei campi di concentramento jugoslavi, o nelle marce di trasferimento).
La prima ondata di violenze seguì l’8 marzo 1943, così dice una nota storia di un servizio pubblico, e lo sfaldamento delle forze armate italiane seguite al crollo del regime mussoliniano.
I tedeschi occuparono i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, mentre nell’interno dell’Istria il potere fu assunto dal movimento di liberazione jugoslavo. Il quadro divenne presto estremamente confuso tra l’insurrezione dei contadini e l’arrivo delle formazioni partigiane croate.
Si instaurarono “poteri popolari”, l’Istria fu annessa alla Croazia e subito cominciarono gli arresti. I partigiani dei Comitati popolari di liberazione di Tito istituirono tribunali che emisero centinaia di condanne a morte.
L’intenzione almeno inziale era quella di vendicarsi dei fascisti accusati di aver amministrato quei territori nell’intervallo tra le due guerre, con durezza e imponendo un’italianizzazione forzata.
Le vittime non furono solo gerarchi fascisti, o esponenti politici e istituzionali, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana, considerati un ostacolo per l’affermazione del nuovo corso politico.
Fonti croate del tempo parlano di come uno dei compiti prioritari affidati ai poteri popolari in Istria fosse proprio quello di “ripulire” il territorio dai “nemici del popolo”: formula che, nella sua indeterminatezza, si prestava a comprendere tutti coloro che non collaboravano attivamente al movimento di liberazione.
La cittadina di Pisino divenne il centro della repressione: vi fu creato un tribunale rivoluzionario e nel castello fu concentrata la maggior parte degli arrestati provenienti da altre località dell’Istria.
La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita.
Le uccisioni, secondo alcuni racconti, avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, costretti a sopravvivere per giorni nei fondali delle foibe.
A maggio del 1945, partì la seconda fase del fenomeno, quella che diede luogo al più alto numero di vittime.
Gli jugoslavi con al comando della IV armata il generale Petar Drapšin puntarono verso Fiume, l’Istria e Trieste. L’ordine era di occupare la Venezia-Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni.
Centinaia di militari della Repubblica sociale italiana caduti prigionieri furono passati per le armi (lo stesso accadde a quelli tedeschi) e migliaia di altri furono avviati verso i campi di prigionia – fra i quali particolarmente famigerato fu quello di Borovnica – dove fame, violenze e malattie mieterono un gran numero di vittime.
L’obiettivo dell’azione repressiva era la liquidazione di qualsiasi forma di potere armato non inquadrato nell’armata iugoslava. Esplicite sono al riguardo le indicazioni presenti nelle fonti, che sottolineano la preoccupazione dei dirigenti del Partito comunista sloveno per l’esistenza a Trieste di strutture politiche e di forze militari, non soltanto non disponibili a rendersi subalterne nei confronti del movimento di liberazione iugoslavo, ma pure impegnate a cercare un’autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli anglo-americani.
Conseguentemente, a essere perseguitati furono anche i combattenti delle formazioni partigiane italiane.
Le autorità iugoslave diedero il via a un’ondata di arresti che diffuse il panico tra la popolazione italiana, soprattutto a Trieste, Gorizia e Pola. Parte degli arrestati fu subito eliminata, molti di più furono deportati e perirono spesso in prigionia, si parla di sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive.
Obiettivi delle retate erano tutti coloro che non accettavano l’egemonia iugoslava. I baratri venivano usati per l’occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista di Jugoslavia di Tito.
Le violenze nelle zone attualmente sotto il confine italiano cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne a partire dal 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste; A Fiume gli alleati non arrivarono e le persecuzioni e le violenze continuarono.
Al massacro delle foibe seguì l’esodo forzato della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine.
Nell’esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia con il trattato di Parigi e anche la Dalmazia.
Da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani partì oltre il 90 per cento della popolazione etnicamente italiana. Si stima che l’esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250 000 e i 350 000 italiani.
Le dimensioni del fenomeno foibe hanno da sempre rappresentato un argomento molto complesso, le stime sono a volte molto discordanti e sono rese problematiche dalla natura delle fonti, tenendo presente che le autorità dei paesi appartenenti alla ex Jugoslavia solo recentemente hanno voluto collaborare alla ricostruzione storica.
Ipotesi parlano di circa 600-700 vittime per il periodo del 1943 e di un ordine di grandezza generale che sta tra le 4 e le 5000 vittime. Altre stime arrivano a conteggiare fino a oltre 20000 morti.
Il dramma delle foibe si concluse con la firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947, quando nella conferenza di Parigi fu deciso che per stabilire i confini tra Italia e la Jugoslavia si sarebbe seguita la linea francese.
E il 10 febbraio di ogni anno, a partire dal 2005, si celebra il Giorno del ricordo, cerimonia di commemorazione delle stragi e del successivo esodo degli italiani.