A Sanremo la falsa virtù della fragilità

A Sanremo la falsa virtù della fragilità

di Marco Andreacchio

LA FRAGILITÀ MODERNA RIVELA LA NOSTRA MISERIA IN UN MONDO ESSENZIALMENTE SENZA DIO

Scopriamo una manifestazione lampante della barbarie della nostra epoca nel discorso correntemente dominante che finge che gli uomini siano o bruti, o “fatine”, come se la fragilità fosse una virtù.

Un esame accorto rileva che la fragilità umana annunciata dalle nostre istituzioni tecnocratiche, non ultime le nostre università, è una falsa imitazione della classica umiltà cristiana (humilitas).

Consideriamo brevemente cosa ha da dire San Tommaso d’Aquino sull’umiltà. Nella sua Summa Theologiae, il doctor angelicus scrive:

necessaria est duplex virtus. Una quidem quae temperet et refrenet animum, ne immoderate tendat in excelsa, et hoc pertinet ad virtutem humilitatis. Alia vero quae firmat animum contra desperationem, et impellit ipsum ad prosecutionem magnorum secundum rationem rectam, et haec est magnanimitas (IIª-IIae, q. 161 a. 1 co).

“È necessaria una doppia virtù: una che tempra e frena lo spirito, affinché non tenda alle cose più elevate senza moderazione, e ciò pertiene alla virtù dell’umiltà; l’altra, in verità, che rafforza lo spirito contro la disperazione, spingendolo alla ricerca di grandi cose seguendo la retta ragione, e questa è la magnanimità”.

Avendo vilmente abbandonato le classiche “grandi cose” (magna), sostituendole con il potere mondano e la sua maschera idealistica (di estrazione machiavellico-kantiana), l’uomo moderno ha perso di vista l’umiltà classica, scambiandola per fragilità, vista come una virtù autonoma rispetto ai nostri fini naturali in Dio.

Mentre l’umiltà classica riflette la discrepanza tra la nostra mente finita e la perfezione di Dio, la fragilità moderna rivela la nostra miseria in un mondo essenzialmente senza Dio, una miseria che dovrebbe essere redenta nella sua “espressione” promossa da una Macchina universalmente lusinghiera quale prova che non abbiamo bisogno di elevarci eroicamente alle cose più elevate, o alle cose in Dio, ma di sottometterci alla Macchina come garante ultimo della libertà.

Tale è il risultato dello sviluppo di un progetto moderno di cui scopriamo un imponente cavallo di Troia nell’opera di Dostoevskij, la cui dicotomia tra “l’uomo d’azione” e lo psicopatico (il gracile risentito e ipersensibile) non riuscì a sfociare nell’intervento divino per altro evocato dal russo oniricamente. La virtù classica permane tuttalpiù in ombre, simboli, formule di parole, promesse alienate dalla “retta ragione” (ratio recta), che è la ragione naturale correttamente intesa: la ragione naturale in sé e quindi in Dio.

Eppure, Dostoevskij ebbe la decenza di collocare almeno nominalmente la virtù in Dio, mentre oggi la virtù è ricercata sfacciatamente nell’assenza e di Dio e della virtù. Essere virtuosi significa fingere che non vi sia una vera virtù classica, che il percorso eroico verso Dio Padre non sia altro che una Chimera e che la vera virtù si trovi nel trionfo antipatriarcale della fragilità soggettiva, dell’effeminato promosso dal nostro regime tecnocratico su scala planetaria.

Dante Alighieri ci aiuta a capire di cosa stia parlando l’Aquinate. Nella Commedia rinascimentale, Dante manifesta umiltà nel suo abbracciare l’“altra via” indicata da Virgilio, una via che non si discosta dalle classiche ascese al divino, ma che le espone come mediate poeticamente. L’“altra via” è infatti quella degli “altri poeti”, delle “altre cose”, che implicano un intendimento poetico della “diritta via”, la via della “retta ragione”.

L’umiltà di Dante si ritrova in un “volgersi” riflessivo che consente al poeta di scoprire il divino alle radici dell’umano e quindi della follia umana. Dio stesso ci chiama a ciò che per i cinici è solo follia. Donde la confessione provvisoria di Dante (nel secondo Canto dell’Inferno): “temo che la venuta non sia folle”.

Con l’avanzare (“andare”) ritornando (“venire”), il poeta è eroico nell’elemento della riflessione. Non rinuncia alle “grandi cose” di S. Tommaso, ma le persegue con moderazione nel senso che le cerca “nel mezzo del cammino di nostra vita”, non come fini che esigono che si abbandoni il buon senso e il dovere civile, ma come fini sostenenti la pietas classica, e quindi l’onore patriarcale, da non confondersi mai con un’imposizione illiberale, ma da custodirsi senza esitazione in quanto carattere proprio dell’onesto (nell’accezione ciceroniana di honestum), di colui che consacra la sua esistenza interamente alla verità vivente come al nostro più grande amico.

 

FOTO DI COPERTINA: Lucio Corsi che canta all’Ariston. Secondo diversi giornali avrebbe portato “la forza della fragilità” a Sanremo…

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Oldest
Newest
Inline Feedbacks
View all comments