Potere nichilista e morte postmoderna
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PRIMO ATTO: LA MORTE MODERNA
In un’operetta morale provocatoria e corrosiva del 1978 – che reca un titolo fin troppo chiaro: La morte moderna – lo scrittore svedese Carl-Henning Wijmark analizza la situazione antropologica, etica e sociale della Svezia, considerato il modello più avanzato di Stato sociale. Era l’epoca di Olof Palme, astro nascente del socialismo democratico svedese ed europeo, ucciso nel 1985 in un attentato dai contorni ancora poco chiari.
Quel mondo socialista aveva incorporato il succo velenoso della modernità e, in qualche modo, era la quintessenza di cinque secoli di percorso moderno che, dal nominalismo di Occam al nichilismo novecentesco, aveva distrutto i fondamenti naturali, etici e antropologici della civiltà europea.
Ebbene, in questo contesto, Wijmark, con esemplare lucidità, descrive il primo atto della “morte moderna”, immaginando un problema politico, ma prima ancora di finanza pubblica: lo Stato sociale svedese rischia di portare le finanze pubbliche al fallimento, ragion per cui ridurre i costi è una necessità impellente, in una nazione in cui le persone invecchiano e hanno di fronte a loro speranze di vita crescenti. Insomma, emerge drammaticamente il problema del mantenimento di anziani, malati cronici e incurabili e di tutti i soggetti deboli e improduttivi che grava sulle spalle dei membri attivi della società, sempre più scontenti, frustrati e impoveriti dalla recessione alle porte.
Che fare? Ancora una volta, l’interrogativo di fabbricazione leninista, che ha dato l’impronta al Novecento ideologico e totalitario, si impone sulla scena pubblica.
Ipotesi di lavoro: trovare la soluzione finale – sì, avete capito bene, il clima è non solo linguisticamente nazista – e pianificare “in modo responsabile l’avvenire di milioni di persone”. Traducendo sul piano pratico: pianificare in modo razionale e democratico, anche in nome di un atavico sogno di uguaglianza, la morte. Un’eutanasia di Stato garbata, socialista, egalitaria e ragionevole, che sciolga dall’esistenza, con “obbligo volontario”, chi non abbia più un’adeguata qualità di vita.
Insomma, un giacobinismo modello Terrore applicato o, come si usa dire oggi, implementato su vasta scala. E la Vandea di turno è la società degli ultimi, dei deboli, dei malati. Costi eccessivi per lo Stato e, quindi, “nemici del popolo”.
Dal socialismo progressista ed egalitario al nazional-socialismo progressista il passo è breve e il gioco a somma zero porterà i frutti sperati. Questo il progetto dei nuovi ingegneri della morte.
Lo scrittore svedese aveva già capito tutto e, come sempre, il cosiddetto mondo “avanzato” ha la caratteristica dei movimenti totalitari, ossia avanza camminando sui cadaveri, mentre la fanfara del Progresso canta i fasti della Nuova Era.
Tutto già scritto nel corpo dell’età moderna e tutto già scandagliato con cura dai tempi di Pio IX fino a Benedetto XVI. Basti leggere l’analisi di Rosmini del socialismo collettivista e dispotico, a partire dalla punta di diamante del comunismo, leggasi alla voce “Manifesto del partito comunista” di Marx-Engels, 1848.
Rosmini aveva, però, previsto tutto già un anno prima, perché il suo discorso è del 1847. Per lui, il comunismo e il socialismo, suo motore non immobile preveggente, creano società controllate da un dispotismo schiacciante che tutto può sull’uomo e sulla sua libertà. La Svezia di Palme si è incaricata di inverare questa acuta e profetica riflessione.
Questo è solo il primo atto della tragedia: siamo ancora in un’arena politico-ideologica, non definitivamente giunta al compimento. Quindi, lo sterminio dei malati e dei deboli richiesto e legittimato non è ancora diventato senso comune. Il laicismo divora la carne umana, ma lascia ancora la carcassa.
SECONDO ATTO: LA MORTE POST-MODERNO
Secondo atto che porta a sviluppo e compimento il primo atto: siamo negli anni Novanta del Novecento e la sbornia post-comunista è all’apice. Fine delle “grandi narrazioni”, decretava il sociologo francese Lyotard già nel 1979, a distanza di un anno dalla pubblicazione dell’opera profetica di Wijmark. Lyotard sentenzia: «Il sapere cambia di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età detta postmoderna». E poi si dice che l’ “età dell’oro” sia un mito irricevibile, niente affatto, anzi, per magia inscritta nella storia, l’ “età postmoderna” cambia tutto, a cominciare dal sapere, il grande mito della modernità, a cominciare dall’altro grande totem di universale diffusione, l’illuminismo.
Tutto chiaro? Salvo richiamare un dettaglio, si fa per dire: il sapere non nasce dal cervello degli dèi della storia, ma emerge dalle pratiche di vita. Detto in altri termini: la condotta intellettuale nasce come strutturazione dell’esperienza comune. Di conseguenza, si arriva ad operare nei laboratori e a progettare stermini di massa quando l’esperienza comune è già stata plasmata da certi movimenti dominanti.
Fu così anche per l’ingresso nella Prima guerra mondiale, nel mondo delle classi dirigenti “sonnambule”, per citare lo storico inglese Clark, e in un clima di nazionalismo aggressivo, all’insegna della “guerra igiene del mondo” (Marinetti). Nel caso della pratica ingegneristica del sapere, che porta alla morte postmoderna, vale lo stesso principio: si attiva la macchina, quando moltitudini ce l’hanno già in testa. La società pensa così e noi la assecondiamo, con grande tatto “democratico” e legalitario. Il gioco è fatto, è sempre a somma zero, ma respira il gas tossico del popolo consumatore e nichilista.
TERZO ATTO: LA TOSCANA E “IL RE È NUDO”
La Toscana ha deciso a favore del “suicidio assistito”. Ha deciso, dunque, per l’esito dell’ideologia nichilista postmoderna e ne ha tratto le conseguenze. Il senso comune che ha diffuso la civiltà della morte è ora decisione politica. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, osservava Schmitt.
Qui non c’è lo stato di eccezione, ma ciò che una volta era considerato da tutti, credenti e non credenti, un punto-limite è diventato prassi possibile. La vittoria del senso comune mortifero che plasma la politica. Non ci sono più differenze tra l’interno del mondo istituzionale e politico e la società, tutto è impastato con lo stesso materiale e il fondamentalismo ideologico è, di conseguenza, possibile. L’obiezione di coscienza a questa decisione di morte sarà certamente stigmatizzata e la caccia alle streghe troverà nuovi attori e mentori.
Naturalmente nessuno dichiarerà apertamente che si tratti di nichilismo e che il nichilismo sia il padre severo della violenza. Anzi, come nel caso del “nuovo mondo”, da Huxley a Orwell, e come nel caso dell’Anticristo pacifista, vegetariano, eticamente perfetto e rigorosamente crudele, naturalmente sempre per il bene dell’umanità, secondo la descrizione di Solov’ëv, questa mossa politica, in chiave di assoluta autonomia e del tutto differenziata (ora l’autonomia è cosa buona e giusta, perché il Progetto deve essere realizzato, costi quello che costi), sancirà la nuova fase del Progresso. Inarrestabile, il Progresso, dai tempi della Rivoluzione francese all’epopea devastante della rivoluzione comunista, e sempre i rivoluzionari di professione erano dalla parte del Giusto e del Bene.
Il fondamentalismo nichilista e fino a ieri solo laicista (era ancora la fase moderna) ragiona in termini di progresso; l’etica cristiana, che ha plasmato il migliore umanesimo civile europeo, si muove per affermare la verità della persona e la sua dimensione tanto soprannaturale quanto naturale.
Tommaso d’Aquino incorporava questa realtà nella dimensione del bene comune e Giovanni Paolo II ha messo il sigillo a questa concezione della realtà e della vita: “civiltà dell’amore”. Il fondamentalismo non accetta mai il realismo e, da questo punto di vista, coglie sicuramente il pericolo. Perché l’amore, lungi dall’essere un mero sentimento, è la sostanza oggettiva e naturale della persona e della comunità.
Come tutti coloro che assistono i propri cari, nel colmo della loro sofferenza quotidiana, sanno perfettamente. Un sapere intriso di esperienza e di luce. Incipit vita nova (Dante).