Oltre la giostra dei valori
–
DANTE GUIDA DELLE NAZIONI
La politica della nostra epoca è inondata dagli effetti a cascata del “discorso sui valori” del diciannovesimo secolo; spinta a trasformarsi in una giostra che distrae il suo pubblico di massa dal cataclisma politico verso cui stiamo accelerando collettivamente. Un esempio lampante di discorso sui valori è offerto da recenti dispute tra il vice-presidente Americano, J.D. Vance, e i dirigenti tecnocrati dell’UE: due campi facenti appello a rispettivi insiemi di valori o interessi solo apparentemente incompatibili tra di loro. Un campo fa appello, non molto diversamente dal russo Aleksandr Dugin, a valori tradizionali e nazionali, tra cui un Dio biblico; l’altro si richiama ad una visione comprensivamente secolare o tecnica della politica, abitualmente denominata “democrazia” (negli Stati Uniti, i termini di paragone tendono ad essere repubblicano e democratico, o conservatore e progressista).
È utile sapere qualcosa di Hegel per vedere attraverso l’apparente contrasto tra coloro che parlano di ritorno a vetusta grandezza e coloro che cercano una grandezza nuova senza precedenti nella trasformazione di tutto ciò che fu; tenendo presente che l’ottimismo “apollineo” di Hegel rischia di distrarre o accecare coloro che lo intendono troppo alla lettera.
Nel richiamarci a portare avanti e a termine l’operar della morte, il germanico espone un tratto essenziale del progresso moderno: l’ascesa della nostra Società Aperta, Universale, o Globale (Great, fu l’appellativo prediletto dal pragmatista John Dewey) comporterà la gestione e persino la dominazione della morte. Chiaramente, non la scomparsa della morte, ossia del passato in quanto tale, ma la sua amministrazione: il trattamento della morte come problema meramente tecnico. La morte come res extensa, materia quantificabile. Solo trattando la morte o la natura come una macchina (soggetta ad una logica simbolicamente eterna) potremmo creare (“alchemicamente”) un mondo completamente spirituale o libero che incarni la pienezza ontologica della natura. Tale il proposito hegeliano: recuperare il passato quale ricettacolo di ogni esperienza, o quale orizzonte di ogni “valore,” su un piano puramente spirituale—e questo grazie ad un’implacabile logica liberatrice.
Relativamente ai dibattiti odierni tra conservatori e progressisti, il “Sistema” di Hegel ci insegna che la nostra identità storica (e dunque il nostro passato) può essere conservata solo nel mentre che procediamo verso un Regno della Libertà (Marx parla di Reich der Freiheit) in cui la natura è (o dovrebbe essere) finalmente redenta. In linea con tali e simili considerazioni, nell’opporsi ai “democratici” dell’UE, Vance ricorda loro semplicemente, seppur inconsapevolmente, che per le nostre nazioni avanzare verso il futuro significa resuscitare vecchi Dèi in un nuovo contesto, una nuova vita mediata integralmente dalla tecnica, o più precisamente dalla tecnologia. Dovremmo custodire i nostri vecchi “valori” per non perdere ogni interesse nell’emergente forma tecnologica di tutti i valori, come anche nei suoi imperativi mondiali. I nostri valori costituirebbero il contenuto (morto) che dovremmo integrare (animare) laboriosamente in una nuova forma (il contesto tecnologico vivificante), così che il contenuto, ciò a cui saremmo interessati in termini pratici, possa essere reso “di nuovo grande” (great again, come risuona lo slogan trumpiano).
Dimenticando i nostri vecchi valori, i tecnocrati dell’UE sottovaluterebbero l’umano bisogno di “miti” mentre sopravvaluterebbero la capacità di un discorso tecnico-formale di risolvere problemi politici garantendo così la coesione delle nazioni. In effetti, Vance ha ricordato ai tecnocrati dell’UE che la religione tradizionale d’Europa, o del cosiddetto Occidente, è necessaria, non solo per consolarci nel privato, ma anche per legarci al nostro dovere verso il regime al quale soggiaciamo nel concreto quotidiano.
Dato il nostro clima ideologico, è probabile che la nostra sensibilità e le nostre aspettative restino offese dal pensiero che un poeta medievale sia nella posizione di guidarci a liberarci da paraocchi concettuali e a trascendere i limiti della tecnocrazia. Eppure, ciò è precisamente quanto si propone nei paragrafi che seguono. Il poeta in questione è Dante Alighieri e il testo in cui espone al meglio il nostro bisogno del suo aiuto è il secondo Canto dell’Inferno, un “cantare” che ci offre preziosi indizi circa un problema a cui si allude già nel primo Canto dell’Inferno, vale a dire la presenza della “lupa”.
Il secondo Canto dell’Inferno mette in evidenza il nostro bisogno della poesia dantesca in risposta all’ascesa dell’ordine politico (“il cammino”), in primo luogo, ed in secondo luogo dell’autorità religiosa o propriamente teologica (“la pietate”). Non avremo colto il messaggio politico di Virgilio fintantoché daremo per scontata l’ascesa della Roma antica, mentre saremo lungi dal cogliere il messaggio teologico di San Paolo fintantoché daremo per scontata l’ascesa della Nuova Roma. Dante, che sottolinea di non essere né Enea né Paolo, è d’altro canto in grado di servire da nuovo Virgilio nella nostra Nuova Roma, la nostra era cristiana. Mentre si suppone che Paolo abbia consolidato la fede nell’ordine propriamente divino delle cose, riconciliando così il poeta e l’eroe, Virgilio ed Enea, Dante si propone di esporre, e umilmente ed eroicamente, la distanza che intercorre tra una mente poetica e la mente dei personaggi del poeta: nella Commedia dantesca la prima è “mente che non erra”, mentre la seconda è un pellegrino che ritorna o si risveglia alla sua condizione originale.
L’ostacolo (“impedimento”) principale a cui Dante risponde è la mostruosa “lupa” di un’immaginazione o coscienza che ha perso di vista la discrepanza tra mente/pensiero (in Latino mens indica entrambi) e persona, tra un raggio di luce ed una qualsiasi delle sue determinazioni particolari. Per quanto dovremmo essere grati a Paolo per aver confermato la nostra fede nel fondamento divino dell’autorità civile/politica, la conferma cristiana ha portato per necessità naturale ad un’eclissi della distanza tra l’umano e il divino. La proclamazione dell’inerenza del divino nell’umano ha, in altre parole, contribuito a distrarci dall’assenza di Dio tra di noi. Ciò non significa che il cristianesimo medievale non ci inviti a riflettere sulla discrepanza tra autorità secolare e religiosa, ma che il suo promemoria è servito ad autorità laiche da opportunità per “apparire” divinamente imposte ai popoli. Questo è precisamente come il “leone” del primo Canto dell’Inferno “parea”, quasi fosse stato reciso dalle sue radici naturali, ovvero dalla “lonza” che ora appare macolata/macchiata nella saggezza pratica, ossia prudenza che rappresenta.
È al fine di recuperare un’antica saggezza pratica che Dante invoca le sue muse e l’intelligenza divina (pregando, “O muse, o alto ingegno, or m’aiutate”). In assenza di antica saggezza, siamo destinati a cadere preda della “lupa”, autorità supremamente corrotta o falsamente divina che spinge regimi monarchici a divenire tirannici. Avremmoo allora bisogno di rintracciare l’origine dell’autorità cristiana in un contesto pagano in cui l’ordine politico non è ancora supremamente confermato da Dio, o in cui il discorso religioso non garantisce ancora la coesione politica.
Se vi è una mente unificatrice di ogni cosa, tale mente rimane un problema su cui riflettere, una domanda a cui tornare, un mare di senso in cui immergersi di nuovo. Lungi dal risolvere problemi politici, l’autorità cristiana ha teso ad oscurarli, non per colpa della religione stessa, ma data la propensione dell’uomo decaduto ad abbracciare qualsiasi autorità come opportunità per evitare di pensare. Il cristianesimo tale quale è inteso da Dante ci offre un’opportunità provvidenziale di pensare o ripensare, mentre “li animai che sono in terra” rimangono in piena sottomissione ad autorità innaturali o oscurantiste. Dante torna sia alla vecchia Roma che alla sua nuova guisa spirituale nell’elemento della riflessione, per leggere la loro autorità in termini di modifiche di una “mente che non erra” (tema ripreso magnanimamente da Vico nei suoi Principi di Scienza Nuova), una mente che è nel contempo misteriosamente in se stessa e all’opera nei suoi messaggeri poetici.
Per Dante non è sufficiente ascendere (il nostro poeta parla di “andare”) all’empireo; un “venire” è richiesto come chiave per qualsiasi ascensione. Il “ritorno” del pensiero riflessivo è l’arma che Dante ha a sua disposizione per dissipare i miraggi bestiali e spaventosi della nostra immaginazione cristiana, smascherandoli come fantasmi (“ombre”) che dovrebbero ricordarci la nostra innata capacità di ascendere, piuttosto che gettarci nella disperazione come vittime di una paura che ci nega “la speranza dell’altezza” (Inferno 1.53-54).
Le immagini del discorso del cristianesimo sono suscettibili di essere fraintese come “cose in sé” (res ipsae) e quindi come soluzioni ai nostri problemi comuni, non ultimo quello dell’ingiustizia politica. In effetti, l’ascesa del cristianesimo fa poco o nulla per superare il divario tra “il buon Augusto” e “li dei falsi e bugiardi” sotto i quali regnava (Inferno 1.71-72). L’introduzione del Vero Dio del Cristianesimo non rende gli imperatori migliori di quanto si supponesse fossero in epoca pagana. Ciò che li rende “buoni” è la poesia virgiliana, le cui proprie ragioni sono divinamente legittime, per quanto irriducibili a qualsiasi rappresentazione legale che di esse sia data.
La Nuova Roma conferma la necessità permanente della poesia classica nello stabilirsi dell’ordine politico, che è un ordine umano naturalmente aperto ad un ordine propriamente divino. Donde l’appello di Dante all’autorità cristiana, controcorrente rispetto a tutti coloro che concepiscono tale autorità come occasione per alienare, se non addirittura scomunicare del tutto il pensiero puro dal processo decisionale umano/politico.
Se le autorità pagane non furono in grado di illuminare la virtù a cui dovevano il loro prestigio, le autorità cristiane si ergono come arma a doppio taglio: seppure siano suscettibili di essere utilizzate per abolire del tutto la poesia, macchiandola con accuse immeritate, le autorità cristiane possono in alternativa servire i poeti come forme che confermino la capacità dell’uomo di trarre autorità dalle profondità divine del proprio pensiero. In questo caso, il cristianesimo conferma che “il leone” è originariamente in armonia con “la lince”, che è originariamente immacolata, trovandosi ristorata nella poetica “dolce stagione” quando “il sole e l’altre stelle”, vale a dire tutte le forme divinate dai poeti, si muovono armoniosamente (Inferno 1.37-40). Quanto alla “lupa”, questa dev’essere sostituita da una Chiesa che serva universalmente da specchio poetico per la virtù e quindi per la nostra inalienabile dignità di poeti.
In un contesto moderno, anziché essere ricacciata nell’abisso dell’inferno (“lo ’nferno / là onde ’nvidia prima dipartilla”—Inferno 1.110-11), la lupa di Dante è strumentalizzata machiavellicamente per consolidare la tirannia su scala planetaria—tirannia con un altro nome. Ciò che per Dante è un’autorità religiosa corrotta viene riconfezionata come ingrediente necessario per l’ascesa di un regime definito dai “modi ed ordini nuovi” di Machiavelli, astutamente imposti sulla natura umana. Ci si aspetta che la religione sostenga, non vecchie monarchie, ma un regime completamente innaturale che non si limita a reprimere la natura, inclusa quella umana, perché tenta di convertirla in carburante per il potenziamento di un unico ed universale deposito e garante di ogni identità (supremo venditore di indulgenze, per evocare un’espressione medievale). La difesa delle identità nazionali viene di conseguenza eseguita sotto l’ipotesi che le identità siano prodotte storicamente, piuttosto che fondate sull’intelligenza divina. “Prodotte storicamente” significa “evolventisi attraverso l’uso che una casta di furbi fa della morte” nell’interesse della “gestione del caos”. Rivenendo alla lezione di Hegel, la guerra sarebbe chiave maestra del progresso umano, tenendo presente che, come ha mostrato Leopardi, nel mondo moderno la guerra è strettamente ideologica. Donde la principale passione dei nostri politici. Cercano la guerra come essenziale per definire la nostra identità. Ma la guerra denota qui soprattutto il funzionamento di una macchina da guerra, e quindi il consolidamento della tecnologia come meccanismo di morte, dato il quale il politico emerge come uomo d’affari (businessman) il cui peculiare business è quello di gestire la morte, vale a dire di trasformare la morte in una causa collettiva. Per definirci in qualità di nazioni dovremo dichiarare guerra incondizionatamente o “al di là del bene e del male”, dedicando quindi le nostre vite all’ascesa della tecnologia marziale come destino planetario. Quinci la guerra come libertà ultima, laddove la tecnologia sarà mezzo eccelso di propagazione di libertà, ossia di conversione della morte in “vita nuova” (leggasi, “virtuale”), vita come risultato della gestione tecnologica di morti “valori”. Così la morte acquisterebbe un valore concreto.
Attualmente e come anticipò elegantemente Michael Oakeshott la tecnocrazia si rivela forma terminale della guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Dedichiamo le nostre vite a quella forma in modo che possa definirci, attraverso la sua rete aperta di regole e regolamenti in continua evoluzione, come bestie civilizzate orientate ad uccidere per non essere uccise, a costruire sulla distruzione, a servire la causa della morte mentre fingiamo di affermare la vita (Naturalmente, ciò che per Dante redime i nostri “valori” non è la nostra tecno-alchimia neo-gnostica, ma lo Spirito Santo che ristora il passato in un’eternità aldilà di qualsivoglia giostra dei valori).
U.C.A.S: ufficio complicazioni affari semplici.
Il “potere delle 2 spade” , è sempre esistito.