Il cattocomunismo si sottomette all’Islam

Il cattocomunismo si sottomette all’Islam

di Angelica La Rosa

IL CASO SCANDALOSO DELL’ASILO DI PONTE DELLA PRIULA 

È difficile restare in silenzio davanti a ciò che è accaduto nell’asilo paritario Fism di Ponte della Priula, in provincia di Treviso.

E non tanto per il gesto in sé – una “visita” alla moschea locale con bambini in tenerissima età – quanto per tutto ciò che questo episodio rivela: la fragilità, la confusione, la resa culturale e spirituale di un’istituzione che dovrebbe educare all’identità cattolica, ma che invece si fa docile strumento di un relativismo imperante, pronto a sacrificare tutto – fede, valori, simboli – sull’altare dell’inclusività malintesa.

Facciamo chiarezza. Qui non si tratta di negare che esistano famiglie di religione musulmana nelle nostre scuole. Non si tratta neppure di opporsi, per principio, a ogni forma di conoscenza o di dialogo tra culture diverse.

Il problema è ben più profondo e ben più grave. È la strumentalizzazione dei bambini a scopi ideologici. È la confusione dei ruoli educativi. È la rinuncia palese all’identità cristiana in nome di una neutralità apparente che, nei fatti, si traduce in subordinazione culturale e spirituale all’Islam.

Cosa significa, davvero, portare dei bambini di tre, quattro, cinque anni in moschea? Non si illudano i benpensanti: a quell’età non si è in grado di comprendere “l’altro”. A quell’età si assorbe, si imita, si interiorizza ciò che viene proposto come esempio.

Ed è qui che l’episodio assume un significato sconcertante: si sono portati i bambini in un luogo di culto islamico, si è lasciato che seguissero le indicazioni di un imam, si è permesso che replicassero gesti che – anche se formalmente non si trattava di una preghiera – avevano una valenza profondamente religiosa e simbolica.

E mentre tutto questo accadeva, dov’era la testimonianza della fede cristiana? Che tipo di esempio è stato dato ai bambini che frequentano una scuola “di ispirazione cattolica”?

A quanto pare, nessuno si è posto il problema che simili iniziative, presentate come innocue, abbiano in realtà un peso formativo enorme. In nome della multiculturalità, si è accettato che il simbolo dell’altro entri nella scuola con tutti gli onori, senza che vi fosse un’adeguata reciprocità, né un bilanciamento serio tra ciò che si propone e ciò che si rinuncia a trasmettere.

I responsabili dell’istituto hanno dichiarato che la visita alla moschea era “un momento bellissimo”, un ponte tra culture, una celebrazione della diversità.

Ma viene da chiedersi: un ponte verso cosa? Verso l’annullamento della propria identità? Verso  la sottomissione delle donne ai diktat degli uomini? Verso l’educazione alla fede come semplice “colore locale” intercambiabile? È così che si prepara un bambino a diventare adulto, cittadino, cristiano?

L’aspetto più inquietante è che tutto ciò avviene in una scuola parrocchiale. Una scuola che dovrebbe essere presidio culturale, roccaforte educativa, luogo dove i semi della fede e della ragione si intrecciano per dare frutti buoni. E invece eccola lì, trasformata in terreno neutro, dove si sorride compiaciuti perché i bambini “ripetono i gesti dell’imam”, si fanno spiegare come si prega rivolti alla Mecca, ricevono opuscoli per l’Eid come se fosse una versione esotica della Pasqua.

Eppure, tutto questo si svolge con il beneplacito dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e, stando a quanto riportato, persino del parroco e delle autorità religiose locali.

L’elogio della “fratellanza umana” citando papa Francesco è diventato il pretesto per smantellare ogni differenza, ogni verità, ogni pretesa di autenticità. Tutto si equivale, tutto è degno, tutto va accolto. Ma a furia di accogliere, si finisce per svuotare.

E quando si svuota l’identità cristiana in nome del rispetto altrui, si ottiene solo il dominio silenzioso dell’altro, che non rinuncia affatto alla propria identità, anzi la rafforza.

Non si tratta di fomentare scontri di civiltà, né di disprezzare le fedi altrui. Ma il rispetto autentico nasce dalla consapevolezza di ciò che si è. E una scuola cattolica che si comporta da agenzia culturale neutra, pronta ad adattarsi al credo dei genitori più numerosi (e rumorosi), è una scuola che ha smarrito la propria missione. È una scuola che tradisce chi la sceglie perché pensa di trovarvi un’educazione fondata sul Vangelo. È una scuola che si inginocchia, sì, ma non davanti al Tabernacolo: si inginocchia davanti al politicamente corretto, all’ideologia del momento, alla paura di affermare la propria identità per non “offendere” nessuno.

E così, mentre si evita con cura ogni crocifisso “troppo visibile”, ogni simbolo “troppo cattolico”, si favorisce con entusiasmo la conoscenza dei riti islamici, si celebrano le feste musulmane, si distribuiscono opuscoli, si accompagna docilmente l’infanzia verso una “cultura del dialogo” che somiglia sempre più a una catechesi altrui. E tutto questo, nel silenzio colpevole di tanti, viene chiamato “integrazione”, “apertura”, “educazione alla pace”.

Ma pace non è dimenticare chi siamo. Pace non è sostituire il segno della croce con la prostrazione alla Mecca. Pace non è costruire un mondo dove tutto è uguale e nulla ha più valore. La vera pace nasce dal confronto sincero, non dalla resa silenziosa.

È tempo di reagire. È tempo che le famiglie cattoliche, i docenti credenti, i parroci ancora fedeli alla loro vocazione si facciano sentire. Non per chiudere le porte all’altro, ma per non chiudere le porte a Cristo. Non per difendere un’identità sterile, ma per salvare il cuore stesso dell’educazione cristiana. Perché se anche le scuole cattoliche smettono di formare i cristiani di domani, chi lo farà?

E infine, una domanda: quale futuro stiamo preparando per i nostri figli, se già da piccoli li abituiamo a considerare tutte le fedi come intercambiabili, se li conduciamo per mano – letteralmente – dentro un universo simbolico che non è il loro, senza offrire prima gli strumenti per conoscere e amare la propria identità?

Educare non è accarezzare le diversità: è trasmettere la verità. Se lo dimentichiamo, non ci sarà inclusione che tenga: solo il vuoto. E il vuoto, prima o poi, qualcun altro lo riempirà.

 

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