13 Luglio 2025

Storie di un genocidio dimenticato

di Andrea Bartelloni

I KHMER ROSSI MISERO IN PRATICA QUEL CHE IMPARARONO A PARIGI

“L’odio è un fattore importante per la lotta: l’odio implacabile del nemico, un odio che spinge l’uomo a superare i suoi limiti naturali e fa di lui una macchina efficace per uccidere, vigorosa e fredda. I nostri militanti debbono essere così: un popolo senza odio è incapace di vincere un nemico brutale”.

A cinquant’anni dalla tragedia che ha travolto la Cambogia dal 1975 al 1979 queste parole descrivono alla perfezione lo spirito che portò nel giro di poche settimane a stravolgere la vita di milioni di cambogiani. Due dei quali trovarono la morte, circa un quarto della popolazione della Cambogia di allora e 800.000 già dopo un anno.

Quelle parole-manifesto non sono di Pol Pot (1925-1998), ma di Ernesto Guevara detto il Che (1928-1967) e pronunciate in un discorso del 1967, quasi un testamento pochi giorni prima della sua morte. Sicuramente i giovani studenti cambogiani che frequentavano le università di Parigi sono cresciuti anche con questi insegnamenti messi in pratica brutalmente quando rientrati in patria per fare la rivoluzione.

Il 17 aprile del 1975 Phnom-Penh cade nelle mani dei khmer rossi: inizia il comunismo reale, radicale, spietato, già descritto fin da subito dai testimoni che fuggono e si salvano dal genocidio. Ma già dal 1970, negli anni che precedono la caduta di Phnom-Penh, arrivavano notizie dalle aree “liberate” e sono drammatiche: il regime di terrore instaurato lascia intendere chiaramente cosa accadrà dopo la loro vittoria totale. Terrore che aprirà gli occhi a quanti avevano fino al 1975 esaltato i khmer rossi: il marxismo-leninismo-maoismo applicato “divide nettamente l’umanità in due categorie (proletari e padroni, sfruttati e sfruttatori), costituzionalmente in lotta fra loro. (…) Non è possibile quindi condannare gli “eccessi” dei khmer rossi, senza rimettere in causa l’ideologia che li ha causati (…)”.

Con queste parole padre Piero Gheddo (1929-2017), missionario del Pime, descrive la storia della Cambogia e l’avvento dei khmer praticamente in diretta, in un volume del 1976 (Cambogia. Rivoluzione senza amore, Sei), volume che riporta testimonianze di profughi e di molti religiosi tra i quali padre Francois Ponchaud (1939-2025), missionario in quelle terre e che assiste in quei giorni al dramma della Cambogia “liberata”. P. Ponchaud descrive, già nel dicembre 1974, l’afflusso a Phnom-Penh di più di 100.000 profughi “che fuggono il “paradiso rosso” e che hanno potuto dare qualche informazione sulla vita dall’altra parte della barricata”.

La carestia, le rivolte dei contadini, la spaventosa mortalità infantile, sono la realtà dei territori già “liberati” dai khmer rossi, e dopo poco sarà la volta di tutta la Cambogia. La testimonianza di p. Ponchaud sarà pubblicata il Italia nel 1977 nel volume Cambogia anno zero. Sonzogno editore.

A portare altre testimonianze sulla tragedia cambogiana arriva un racconto, nell’elegante traduzione di Nicoletta Prandoni, scritto da Laurence Picq, un’insegnante francese che, sposata ad un khmer rosso, rientra dalla Cina nella Cambogia appena “liberata”. Unica straniera ammessa nel gruppo dirigente, tollerata in quanto straniera, ma sfruttata come traduttrice, vive dall’interno e da un punto di vista privilegiato, gli orrori della Kampuchea Democratica, il nuovo nome della Cambogia. Fino al dicembre 1979 quando il Vietnam invade la Cambogia e costringe alla fuga i capi khmer e finisce così la storia di questo genocidio.

Laurence Picq con i suoi due figli fugge con loro, partorisce il terzo figlio, ma riesce a salvarsi e ad arrivare a Parigi. In quella Parigi che aveva visto la formazione ideologica del gruppo dirigente khmer è che è ben descritta nell’introduzione scritta da Marco Respinti che ha curato e ampliato l’edizione italiana pubblicata da Tralerighe Libri, edizione che ospita un prezioso invito alla lettura di Antonia Arslan. “Ma che libro è questo scritto dalla Picq? Non è un libro di storia, né la ricostruzione di eventi luttuosi, né un’autobiografia, ci ricorda Respinti, è un diario. Una testimonianza senza esagerazioni, quasi in sordina e per questo il suo libro è completamente convincente”.

Un’ occasione per riprendere in mano la riflessione su un genocidio che sembrava essere stato descritto in maniera approfondita, ma mai con una testimonianza dall’interno del gruppo dirigente khmer come fa Laurence Picq.

 

Foto di copertina di Sasin Tipchai da Pixabay

 

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