13 Luglio 2025

I Guiscardo di Sicilia (ovvero il paradiso perduto di Mastraca)

di Matteo Orlando

L’ULTIMA FATICA DEL PROFESSORE E SCRITTORE PALMESE FRANCESCO BELLANTI

È uscito da pochi giorni il nuovo romanzo di Francesco Bellanti, I Guiscardo di Sicilia (ovvero il paradiso perduto di Mastraca), sempre per i tipi dell’editore Carello di Catanzaro, casa editrice con la quale lo scrittore palmese ha pubblicato con successo nel 2021 Isabella Tomasi di Lampedusa – La più grande dei Gattopardi, biografia romanzata di Suor Maria Crocifissa della Concezione, la Beata Corbera de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ultimo discendente di questa nobile famiglia, che è stata bene accolta da Gioacchino Lanza Tomasi figlio adottivo dello scrittore, e dagli ambienti ecclesiastici e intellettuali. Con la stessa casa editrice, il prolifico scrittore palmese, singolare e talentuoso scrittore, poeta e saggista, docente di italiano e latino in pensione – autore di ben quattordici libri con questo, e che, con articoli, saggi e recensioni, collabora con riviste culturali regionali (Il Peso Specifico), nazionali (inFormazioneCattolica, Il Corriere del Sud, altri) e internazionali (la rivista parigina per gli italiani in Francia La Voce) – ha pubblicato nel dicembre 2022 Storia scellerata, che ha come sottotitolo di don Lollò il Crasto, che fece il vastaso per diventare l’ultimo Gattopardo, attore, nobile, mafioso e deputato. Nel gennaio 2024 ha pubblicato, infine, sempre con la Carello, Il quadro di Stalin, che ha ottenuto consensi e ottime recensioni da giornalisti e critici letterari. Con questo nuovo romanzo, l’ex professore del Liceo G.B. Odierna di Palma di Montechiaro e dell’ITC Re Capriata di Licata, alla sua sesta pubblicazione negli ultimi cinque anni (ricordiamo anche  Dialogo con il Führer – Giorni d’estate a Berchtesgaden nel 2019 e Il Cardinale e il labirinto di Dedalo nel 2020), conferma i suoi interessi per una letteratura visionaria e fantastica, non slegata tuttavia dalla realtà, secondo un’estetica molto vicina a quella del realismo magico.

E allora, professore, lei ha definito questo suo ultimo romanzo “una favola siciliana”. In che senso una favola? Leggendo il romanzo, a me sembra che la definizione più corretta sia quella di “romanzo storico”.

Sì, in realtà ero indeciso su come definirlo, se romanzo storico o favola. Credo che sia entrambe le cose. Il romanzo è storico perché, per dirla con Manzoni, è un misto di storia e d’invenzione. È la storia di una famiglia siciliana di carbonari dal 1800 a oggi. Una famiglia che non crede nella storia, nelle leggi e nel progresso, e che vuole fondare un villaggio lontano dalla cosiddetta civiltà e dalla violenza della storia. Il capostipite, l’ufficiale palermitano Calogero Guiscardo il Primiero, andato in Sudamerica nei primi anni Venti dell’Ottocento con sua moglie Rosita Mandalà come esiliato carbonaro e per liberare il Sudamerica dalla Spagna, vissuto in una fattoria fino al 1837, partecipa alle attività rivoluzionarie di Garibaldi e viene ucciso nella battaglia di San Antonio l’8 febbraio 1846, che fu un episodio della guerra civile uruguaiana. L’unico figlio di Calogero Guiscardo, Francesco, felice nella sua fattoria nell’Uruguay, prende in odio le guerre e la violenza della storia che secondo lui non porteranno mai la pace, e soprattutto Garibaldi, che giudica un avventuriero ambizioso. La madre, invece, cerca di convincerlo a seguire il Nizzardo in ogni guerra che combatteva, perché altrimenti sarebbe stato inutile il sacrificio di suo marito. Nonostante tutte le resistenze, e nonostante si fosse sposato, nel 1860, quando Garibaldi preparava l’invasione del Regno delle Due Sicilie, Francesco è convinto dalla madre a partire e ad arruolarsi nell’esercito garibaldino. Giunto a Genova in aprile, inizialmente accetta di far parte di una missione affidatagli da Garibaldi ma poi rifiuta di partecipare a quella che lui ritiene una aggressione internazionale, e in Sicilia decide di disertare e di comprare, con i soldi avuti da Garibaldi per arruolare soldati, nella Sicilia interna una grande fattoria di un barone filoborbonico.

Il romanzo è ancor di più storico perché attraversa fatti realmente accaduti nella prima metà del XX secolo.

Sì, anzi, in questa seconda parte, la storia ha un peso più rilevante. E qui comincia la favolosa storia del villaggio di Mastraca, dal cognome del barone filoborbonico. Da un lato, Francesco Guiscardo, con alcuni amici zingari dai poteri straordinari, crea un piccolo paradiso autonomo, una fattoria, e un villaggio agricolo, popolato da tante altre persone, contadini, artigiani, eremiti, religiosi, comandanti del Sudamerica. Vengono anche personaggi strani, che hanno poteri magici, tutti però perfettamente integrati in un mondo solidale e magico dove non sembra esserci divisione tra la vita e la morte, tra animali e uomini. Ma c’è anche la madre di Francesco Guiscardo, Rosita Mandalà Del Otro Mundo, dilaniata tra desiderio di pace e voglia di vendetta – vuole fare uccidere dal figlio ora Garibaldi, ora Vittorio Emanuele II, ora Umberto I. Poi, i suoi discendenti, per onorare lei e combattere la violenza della storia, cercano di uccidere per ben due volte Mussolini, poi un generale americano nel 1943, responsabili secondo loro del male della storia. Tante avventure si dipanano nella storia di Mastraca, sia quando gli abitanti vengono a contatto con la storia – la ferrovia e le invenzioni, le rivoluzioni e le guerre, i Fasci siciliani, il Fascismo, lo sbarco degli Angloamericani nel 1943 – sia all’interno del villaggio, guidato sempre dalla famiglia Guiscardo, che, attraverso Palomo, uno degli zingari, è in possesso del libro segreto del mondo che contiene la storia e il segreto della felicità. Ma dentro questa storia, ciò che è stata e ciò che poteva essere, il cosiddetto verosimile manzoniano e tassesco, accadono fenomeni che credo abbiano poco o niente a che fare con il romanzo storico.

Cioè fatti incredibili, meravigliosi, per seguire la terminologia letteraria adoperata da lei, cioè l’estetica tassesca soprattutto. E qui entriamo nella favola…

Sì. Infatti, Innumerevoli fenomeni prodigiosi accadono nella vita di Mastraca, rivolte di animali che parlano tra di loro e con un eremita, nascite miracolose, storie d’amore d’altri tempi, straordinarie congiunzioni astrali e incredibili calamità, e tanti personaggi singolari: zingari strani ed eremiti dai poteri incredibili, frati mistici, fantasmi, generali e comandanti, cacciatori di bufali venuti dall’America. In un contesto di magia e realtà, vivono a Mastraca, oltre a Francesco Guiscardo Dei Due Mondi, che diventa Re di Mastraca, Rosita Mandalà Del Otro Mundo, la pasionaria che volle tutte le guerre e tutte le teste dei Re, Binidittu il puro  Vento del Sud, Pinella la libellula o la farfalla che raccoglieva farfalle, Conchita la sonnambula conquistadora, che sapeva addormentare donne e uomini e li faceva camminare come sonnambuli, u zi Francisco veggente che aveva le visioni dei Santi e attraverso di loro faceva trovare le cose perdute, gli zingari Benedicto Clodoveo Guerrero Caballero De Los Recuerdos y del Olvido, o dell’Oblivion, o in portoghese dell’Esquecimento, l’inventore del ricordo e dell’oblio, Eriberto Ernesto Cabrera Vega che sapeva levitare e spostare oggetti con la mente, Florinda Miranda De Mil Flores, la donna che guariva il mondo con le rose e sapeva fare recuperare la verginità perduta con le erbe, Hernando Redondo Camacho De Sueños, che conosceva l’elisir dei sogni con cui poteva trasformarsi in puro sogno ed entrare nei sogni degli altri, Palomo che tutto seppe, un’enciclopedia vivente, in carne e ossa, lo spirito della baronessa Margherita che tormenta gli abitanti per fare recuperare e seppellire il suo corpo, il barone suo marito Alfonso Mastraca che torna nel villaggio dopo più di trent’anni convertito al buddismo e tanti altri straordinari personaggi. Il mondo di Mastraca è un incredibile incrociarsi di destini, di vicende reali e di fenomeni prodigiosi fra vita e sogno. Una favola, dove il sogno entra nella vita e la vita nel sogno, dove tutto appare e scompare, anche quando un giorno riappare il marasma della storia.

Anche in questo romanzo, dunque, come in quasi tutti gli altri suoi romanzi, il lettore è immerso in un tempo visionario e fantastico, sospeso tra realtà e leggenda, folklore e magia, storia e superstizione, tradizioni e cultura popolare, quello che lei ha definito, seguendo schemi màrqueziani, il realismo magico siciliano. Insomma, il mondo mitico e simbolico, reale e magico, dell’estetica di Francesco Bellanti. Anche sull’impianto linguistico, ci pare che lei segua le scelte che si sono notate negli ultimi romanzi…

Sì. Ma sono scelte, credo, coerenti. Non c’è qui solo il dialetto siciliano utilizzato ne Il quadro di Stalin, né l’esplosione di dialetti, o le influenze linguistiche colte, di latino,  italiano, spagnolo, tedesco, inglese di Storia scellerata. Il narratore, come in tutti i miei romanzi, racconta la storia in lingua italiana, anche se talvolta s’immedesima e si esprime nella lingua dei protagonisti, entra nei loro pensieri. Ho fatto parlare i personaggi come potevano parlare: Garibaldi in un italiano colorato da termini che poteva avere appreso in tutte le sue avventure, i carbonari siculo-argentini in siciliano e spagnolo, il Re Umberto I con qualche termine dialettale piemontese e francese e così via. C’è sempre, però, lo sguardo su una Sicilia ricca di storia, cultura, arte, tradizioni religiose.

Lei è uno scrittore versatile, per temi e generi narrativi affrontati. La sua scrittura allora proprio per questo motivo utilizza diversi registri linguistici. Anche in questo libro. Andrà sempre più allontanandosi dall’italiano alto, forbito, dei primi libri? 

La varietà dei registri linguistici nei miei libri è una conseguenza della varietà degli argomenti, ma, per la verità, mentre solo in Storia scellerata ho rivoluzionato radicalmente il linguaggio, in ragione dei protagonisti, dei temi e dell’originalità della narrazione, qui ho usato nella sostanza solo tre lingue, il siciliano – comunque sempre comprensibile – l’italiano, magari un po’ storpiato, come ancora viene fatto nelle classi popolari, e uno spagnolo abbastanza semplice, talvolta anche tradotto in italiano. Io prediligo l’italiano colto, letterario, una lingua bella, plastica, duttile, varia, sonora, una sorta di prosa poetica, che ha una tradizione di eccezionale spessore culturale. Così è stato nel libro su Hitler, per esempio. Non amo il dialetto come lingua scritta, e soprattutto il siciliano, troppo denso di suoni cupi, il dialetto tout court come lingua scritta non mi piace, anche perché io penso e ragiono, sogno, esclusivamente in italiano. Ma la lingua che si deve utilizzare in ogni libro è legata all’argomento che si vuole descrivere.

 Anche in questo, come negli altri suoi romanzi, tutto trasuda di Sicilia…

Sì, questa terra meravigliosa metafora del mondo, culla di grandi civiltà, incrocio di popoli e di culture, terra che unisce e non divide, anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente, amata da poeti e scrittori, meta di pellegrinaggio e di viaggi di mille genti diverse. Anche in questo libro si può trovare quello che ho descritto in Storia scellerata, ma anche ne Il quadro di Stalin, un caleidoscopio straordinario di personaggi tragicomici, bizzarri, stravaganti, eccentrici, paradossali ma veri, uomini, non solo maschere di un tourbillon di storie, dialoghi, incroci culturali e linguistici originali, il tutto però contestualizzato tra l’Ottocento e il Novecento, tempo di passaggio da una Sicilia diciamo arcaica a una moderna, di grande cambiamento sociale, politico. Forse solo chi ha vissuto quel tempo può credere a questi personaggi, perché oggi non se ne vedono più. Qui ci sono i prodromi di una Sicilia terra universale, multietnica, multirazziale, internazionale, interculturale, allucinante ed effervescente, aberrante e pazzesca, metafisica ma vera, luogo fatale d’incontri, d’incroci, di razze, genti, popoli, culture e lingue. Quello che s’intravede ne Il quadro di Stalin ed esplode in Storia scellerata

Anche qui, come in tutti i suoi romanzi, sembra che lei tratti il tema della follia. In fondo, voler fondare un villaggio lontano dalla storia è pura follia. Magari una diversa forma di follia…

Sì, una diversa forma di follia. Mi ha sempre affascinato questo tema, tanto che ho scritto un libro proprio sulla follia, Casto, incontaminato amore, è un tema a me familiare.  Ho frequentato per tutta la vita, anche per la mia professione di docente liceale di lettere, autori come Pirandello, Svevo, Freud, Hölderlin, Ariosto, Tasso, Rilke, Kafka, Campana, Bruno, Nietzsche, Erasmo da Rotterdam, Blake, e tanti altri. Credo che la follia sia una chiave di lettura decisiva per comprendere e decifrare il mondo. La follia è presente nella storia e nel tempo molto più di quanto si creda, più ancora della stessa ragione. Pirandello è lo scrittore che meglio ha percorso il labirinto della follia. La follia pirandelliana è il viaggio periglioso nella pupazzata della vita, nel mondo delle maschere e delle forme, nell’illusione delle pure apparenze, nelle trappole della società, il viaggio nell’estraniamento, nella grandezza del caos. La follia è l’impossibilità della comunicazione, l’alienazione dell’uomo moderno all’interno della famiglia e della società, è la fuga nell’assurdo, nel panismo, nell’annullamento di sé come persona. La follia qui si concentra, invece, in un’idea, l’idea di poter fare a meno della storia, di poter creare un luogo senza tempo. Ma questa è una follia positiva, perché indica un sogno, un percorso, una visione del mondo, un modo per governare il tempo e la storia.

Lei è tornato spesso sul tema dell’identità siciliana. Che rapporto c’è tra questo romanzo e l’identità siciliana?

Anche in questo romanzo emerge una terra ricca di storia, cultura, arte, tradizioni religiose; in questa terra meravigliosa, metafora del mondo, culla di grandi civiltà, incrocio di popoli e di culture, terra che unisce e non divide, anche se, per l’argomento trattato, la vita di un villaggio isolato dal resto del mondo, non ho potuto esprimere pienamente questo tema. Qui emerge soprattutto l’anima spagnola della Sicilia, anche se in modo fantastico. Una delle tante anime, di un’identità, quella siciliana, plurale, secondo la famosa definizione di Bufalino. La terra d’elezione di Federico II è, insomma, con tante anime, e questo del realismo magico, molto simile al mondo rappresentato da Gabriel García Márquez in tanti suoi libri che mi hanno sempre affascinato, è uno degli aspetti più importanti anche di questo romanzo. L’identità siciliana non è solo la visione di una Sicilia pigra e indolente, verghiana, conservatrice, gattopardesca, intimistica e decadente, sprofondata nel millenario silenzio, o quella di una società corrotta e mafiosa, omertosa, di parte dell’opera di Sciascia. C’è anche quella poliziesco-metafisica di Camilleri, la Sicilia mitica di Bonaviri, la Sicilia sensuale e lussuriosa di Brancati, la Sicilia del viaggio e del ritorno in un tempo arcaico di Vittorini; sì, una Sicilia mitica, fiabesca e simbolica, il viaggio della presa di coscienza. C’è anche la Sicilia proiettata in un tempo arcano di Pirandello.

Anche in questo libro lei affronta temi che, pur partendo da situazioni e tematiche siciliane, hanno un respiro europeo, la modernità, l’unità d’Italia, e con moduli narrativi che possiamo definire visionari…

Io, per formazione culturale ma forse anche per la professione che ho esercitato per più di quarant’anni, quella di docente d’italiano e latino, di storia con forti legami con le letteratura e con la storia europee, ho sempre proiettato la mia sicilianità, intesa come cultura, in una dimensione internazionale. Ho sempre considerato la Sicilia metafora del mondo, il brodo primordiale dell’esistere, la terra in cui tutto nacque. Ecco anche perché ho riportato all’inizio del libro tre citazioni sulla Sicilia, di un siciliano, Leonardo Sciascia, e di uno straniero illustre, Johann Wolfgang von Goethe. Ho inteso sempre i valori identitari della sicilianità, di questa terra straordinaria con un patrimonio artistico e culturale immenso, valori di alto spessore etico e culturale, come un patrimonio di cultura e di civiltà da spendere in positivo per definire e migliorare il destino del mondo. Sì, i miei interessi sono volti prevalentemente verso una letteratura visionaria e fantastica, molto attenta però alla storia e alla cultura popolare. Credo che ogni scrittore debba avere una chiave di lettura per decifrare il mondo, e la mia è proprio questa, proiettare in una dimensione onirica e fantastica sentimenti, pulsioni profonde, aspirazioni, desideri, sogni, non per semplice evasione e gratificazione personale, ma come strumento essenziale di decodificazione e di comprensione della realtà. Soprattutto in questo senso, la mia poetica è molto vicina a quella del realismo magico.

I suoi libri sono considerati molto colti, diretti a un pubblico colto, non di massa…

Gli argomenti delle mie opere, e le conseguenti scelte linguistiche, non hanno mai avuto questa finalità. Tuttavia, esse richiedono un minimo d’impegno perché nascono da idee da comunicare. Ho grande rispetto per tutti i generi letterari, dal thriller all’horror, al giallo, al romanzo storico, avventura, fantascienza, fantasy e così via, ma per la mia formazione culturale umanistica, per la forma mentis acquisita come docente, credo ancora nella funzione educativa e pedagogica della letteratura, anche se questo, per me, quando comincio a scrivere, non è l’obiettivo immediato. Detto questo, è naturale che nei miei libri ci siano molte informazioni culturali, ma io cerco di presentarle con leggerezza, con ironia, con scrittura non pedante, cercando di coinvolgere sempre il lettore e di stimolarlo alla lettura. Pertanto, i miei non sono libri difficili, distaccano dalla realtà ma fanno tornare sempre alla realtà.

Il filo conduttore che accomuna le sue opere è la ricerca dell’uomo nuovo, cioè il desiderio di un rinnovamento universale dell’umanità, e questo ha dato alla sua scrittura un tono apocalittico, escatologico e palingenetico. Anche in questo romanzo, che parla di un villaggio isolato dal mondo, è presente questa tematica?

Certamente, perché io cerco di dare una mia idea su ciò che è sbagliato e su ciò che è giusto nel processo storico. L’uomo nuovo, che, in un tempo di caos e di disvalori, al di là di retoriche e fraintendimenti politici e filosofici, si presenta anche come  tensione ideale, ricerca costante dei valori che conducono al progresso dell’umanità. Qui forse è anche più facile capire quali sono i valori sui quali si deve fondare l’uomo nuovo: il rispetto dell’ambiente e il ritorno alla natura, il senso della comunità, la solidarietà e il rispetto della diversità, il terrore per la storia che porta sempre guerre, la tolleranza, l’educazione alla pace, a una vita più lenta. Più che singoli personaggi qui c’è tutto un mondo che rappresenta la culminazione di questa tematica, che è un viaggio nella e verso la purezza. Un viaggio che può anche non essere un percorso angelico, ma a ostacoli, superati i quali si trova la pace. Ma lasciamo giudicare al lettore

Un’ultima domanda. Quando è venuta l’idea di scrivere una storia del genere? Come è nato questo romanzo? Lei ha scritto questo libro per dare una sua interpretazione dell’Unità d’Italia, o sbaglio?

No, non si sbaglia. I miei romanzi nascono in seguito a una folgorazione, un’illuminazione, un’intuizione. Venuta l’idea, tutto poi va liscio. Qui, in questo romanzo scritto, con intermittenze, in due anni, il primo impulso è stato quello di dare una mia interpretazione del processo risorgimentale, soprattutto della spedizione dei Mille, di cui avevo parlato in articoli e in altri miei libri. Da molti anni i miei studi mi avevano orientato verso precise convinzioni sul Risorgimento. Io non appartengo a nessun movimento nostalgico o neoborbonico, ma in fatti di storia, come si può vedere in tutti i miei libri, io vado sempre alla ricerca della verità storica. In questo romanzo, mentre affermo che l’unificazione italiana era una necessità della storia, quella che i Borbone non hanno capito, perché dovevano essere loro a mettersi a capo del movimento risorgimentale, nello stesso tempo affermo con forza che l’Unità d’Italia è stato un atto di aggressione internazionale contro uno Stato sovrano che ha pagato a caro prezzo il suo isolamento internazionale. Perciò, sono contro la narrazione retorica e favolistica che tutto fu opera di mille garibaldini che sconfissero uno dei più grandi eserciti d’Europa; Garibaldi fu aiutato economicamente e militarmente dalla massoneria inglese e da circa quarantamila mercenari europei, oltre che dall’appoggio della monarchia sabauda. Il resto, l’idea di un villaggio lontano da una storia sbagliata, è stata una conseguenza naturale. Non aggiungo altro per non togliere il piacere della lettura ai miei manzoniani venticinque lettori.

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