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RESA O RINASCITA
Nel silenzio rotto solo dai ronzanti motori dei droni e dal fragore delle esplosioni, l’Iran si è svegliato, venerdì 13 giugno 2025, in un paesaggio che non ha precedenti nella sua storia recente.
Non è soltanto il suono della guerra, né solo il fragore di una sconfitta militare. È qualcosa di più profondo, più irreversibile: è il crepuscolo di un regime e il sorgere, ancora incerto ma visibile, di una nuova possibilità per la nazione iraniana.
La Repubblica Islamica ha perso la sua ultima opportunità di trattativa. L’arroganza di chi credeva che il tempo fosse dalla sua parte, che l’oppressione interna e la diplomazia dell’intimidazione potessero ancora essere moneta di scambio, è crollata sotto il peso della realtà.
Invece di scegliere la via del compromesso, ha preferito tirare la corda fino a spezzarla. Ora, non resta che raccogliere i cocci. Ma non spetta a loro. Spetta al popolo iraniano.
Le recenti operazioni israeliane, chirurgiche e devastanti, hanno smantellato in pochi giorni ciò che la Repubblica Islamica aveva costruito in decenni: un complesso militare-industriale regionale, alimentato da milizie, ideologia e terrore.
Il cuore pulsante del potere, i centri decisionali del programma nucleare e i vertici del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, sono stati annientati.
Non da una rivoluzione popolare — non ancora — ma dalla loro stessa miopia strategica, dalla cieca convinzione di poter dominare l’Iran contro la volontà degli iraniani.
Ecco la verità più bruciante: la Repubblica Islamica non ha mai governato per l’Iran, ma sull’Iran. Ha usato il popolo come scudo, la religione come manganello, la tradizione come prigione.
Ha gettato le immense risorse del Paese nel fuoco delle guerre per procura, sacrificando il benessere della sua gente per il sogno delirante di un’egemonia regionale.
Mentre Hezbollah riceveva razzi e Hamas droni, gli ospedali iraniani cadevano a pezzi. Mentre si costruivano centrali sotterranee per arricchire uranio, intere famiglie non avevano accesso all’acqua potabile. Questo non è difendere la patria: è tradirla.
Quella che stiamo vivendo è una crisi non solo militare, ma esistenziale. È la fine della legittimità. Un governo può sopravvivere al collasso economico, alle sanzioni, alla guerra, perfino alla carestia.
Ma nessun governo può sopravvivere all’odio del proprio popolo. E oggi, mai come prima, il popolo iraniano odia i suoi governanti. Non per le loro sconfitte militari — che pure sono gravi — ma per il tradimento morale che hanno perpetrato per 46 anni.
I segni del collasso sono ovunque. I cittadini muoiono sotto i bombardamenti destinati ai loro ignari vicini, generali e ingegneri nucleari nascosti nei quartieri residenziali. Le madri piangono i figli mandati a morire per difendere i confini di altri Paesi, non il proprio. E intanto, la cosiddetta élite religiosa e politica si trincera dietro le mura dorate delle sue residenze, ignara del fatto che il tempo della paura è finito. Non fanno più paura. Fanno pena. Sono relitti di un’epoca che si dissolve.
Israele ha fatto ciò che l’Occidente per anni ha esitato a fare: ha rotto l’incantesimo dell’intoccabilità. Ma non è Israele che libererà l’Iran. Saranno gli stessi iraniani. Con la memoria delle rivoluzioni passate, con il coraggio dei giovani che da anni sfidano le leggi sull’hijab e i tribunali della morale. Con il dolore, sì, ma anche con la speranza. Perché nonostante tutto, l’Iran resta.
La sua civiltà millenaria, la sua poesia, la sua intelligenza e la sua sete di libertà non sono state distrutte. Al contrario: si stanno risvegliando.
Gli attacchi del 13 giugno non sono soltanto l’inizio della fine per la Repubblica Islamica. Sono anche l’alba di un possibile nuovo inizio per l’Iran stesso.
Un giorno, forse non lontano, questo regime sarà ricordato come un parassita che ha infestato la nazione, ma che non è riuscito a soffocarla. Come scrisse Simin Behbahani, “ricostruirò la tua patria, anche se dovrò usare i mattoni della mia anima.” È questo lo spirito che anima l’Iran oggi: non la vendetta, ma la rinascita.
Ora il regime ha una sola scelta davanti a sé: arrendersi. Non a Israele, non agli Stati Uniti, ma al proprio popolo. Un popolo che chiede giustizia, dignità e pace. Non è troppo tardi per evitare un bagno di sangue, ma è troppo tardi per salvare il vecchio sistema.
L’Iran rimarrà. Questo regime no. E nel giorno in cui cadrà, le lacrime che oggi bagnano il suolo iraniano diventeranno il seme di una nuova primavera.