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UNA SCELTA STORICA PER LA SICUREZZA GLOBALE
Nel cuore della notte del 22 giugno 2025, il presidente Donald J. Trump ha annunciato al mondo l’attacco strategico contro tre siti nucleari iraniani. Con precisione chirurgica, gli Stati Uniti hanno colpito Fordow, Natanz e Isfahan: nomi che da anni riecheggiano nei dossier delle agenzie d’intelligence e nei corridoi delle diplomazie occidentali. È stata una decisione difficile, audace, eppure inevitabile — ed è giusto riconoscerlo: Trump ha avuto il coraggio di fare ciò che altri leader hanno rimandato per decenni.
Non si tratta di uno scontro improvvisato, né di un atto unilaterale immotivato. Le attività nucleari iraniane sono note da anni: arricchimento dell’uranio in siti sotterranei, mancata trasparenza con l’AIEA, installazione di centrifughe avanzate nei bunker di Fordow, costruiti proprio per sfuggire a ogni sorveglianza. I segnali c’erano tutti. Il programma di Teheran, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, si è sempre mosso sul confine tra ricerca civile e preparazione bellica. Trump, diversamente dai suoi predecessori, ha agito per prevenire il peggio. Lo ha fatto nel momento giusto e con una strategia mirata.
Non è solo l’America ad essere minacciata. È tutto l’Occidente, è Israele, sono le nostre democrazie, i nostri alleati. L’Iran non è semplicemente una nazione in cerca di autonomia energetica: è uno Stato che ha più volte gridato “morte all’America” e “morte a Israele”, ha finanziato milizie terroristiche come Hezbollah, Hamas e i ribelli Houthi, ha destabilizzato l’intero Medio Oriente e si è fatto portatore di un disegno teocratico e imperialista. Il presidente Trump ha compreso che lasciare all’Iran la bomba sarebbe stato un suicidio geopolitico. Ha scelto l’azione preventiva, la via della fermezza, non della sottomissione.
L’intervento militare è stato rapido, letale e soprattutto calibrato: bombardieri stealth B-2, missili Tomahawk lanciati da sottomarini, armi bunker-buster in grado di penetrare nelle viscere della montagna sacra di Fordow. Nessun errore, nessuna vittima civile. Questo dimostra l’altissimo livello di competenza dell’esercito americano e il valore delle sue forze armate, sostenute da una leadership politica che non si nasconde dietro le ambiguità della diplomazia. Trump ha elogiato i “grandi patrioti americani” che hanno compiuto l’operazione, ricordandoci quanto l’onore, il coraggio e la preparazione siano ancora pilastri dell’identità americana.
Nel suo discorso alla nazione, Trump è stato chiaro: l’obiettivo non è la guerra, ma la pace. Una pace vera, duratura, non fondata sulla paura o sulla propaganda, ma sulla deterrenza e sul rispetto reciproco. “Se non ci sarà la pace, andremo avanti con altri obiettivi”, ha dichiarato. E ha ragione. Non si può dialogare con chi usa il linguaggio del terrore. La forza usata con giustizia è l’unico argine alla barbarie. Trump ha dimostrato che l’America è ancora il baluardo della libertà, e che non si piegherà mai ai ricatti dei regimi canaglia.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito l’azione americana “una pagina di storia” e ha ringraziato Trump per la sua “coraggiosa decisione”. Non è retorica: è la constatazione di un fatto. Israele, spesso lasciato solo nella difesa della sua esistenza, oggi può contare su un alleato determinato e fedele. Trump non ha solo difeso un Paese amico, ha mandato un messaggio chiaro a tutto il Medio Oriente: le dittature nucleari non saranno tollerate.
Trump non ha scelto il comodo silenzio, ma l’azione responsabile. Ha difeso l’America, ha difeso Israele, ha difeso il futuro del mondo libero. E ora, davanti alle minacce di Teheran, l’Occidente ha un dovere: stare unito, forte, determinato.