13 Luglio 2025

La fine dell’illusione iraniana

di Angelica La Rosa 

IL SOGNO APOCALITTICO DI SINWAR È SVANITO 

C’è qualcosa di tragicamente emblematico nell’illusione che ha mosso Yahya Sinwar a lanciare l’attacco del 7 ottobre 2023: l’idea che la brutalità possa riscrivere la storia, che il terrore possa diventare strumento di egemonia, che l’odio, in forma di fuoco e sangue, possa edificare un nuovo ordine mediorientale.

Eppure, nonostante la sua spietata lucidità, il leader di Hamas si è rivelato cieco di fronte alla realtà: invece di accendere l’incendio apocalittico che avrebbe dovuto consumare Israele, ha finito per dare fuoco all’impalcatura strategica su cui l’Iran aveva costruito trent’anni di ambizioni regionali.

Il piano era ardito, cupo e, per certi versi, grandioso nella sua violenza: usare Gaza come miccia, incendiare i confini, trasformare Hezbollah, Houthi e milizie sciite in un unico fronte armato, trascinare le piazze arabe in un moto rivoluzionario, spingere la regione a un punto di rottura irreversibile contro Israele.

Era un disegno apocalittico, concepito per travolgere ogni ostacolo al sogno di un Medio Oriente “purificato” dalla presenza sionista. E per un istante, forse, ha anche dato l’impressione di riuscirci.

Le immagini dell’orrore del 7 ottobre – case incendiate, famiglie massacrate, bambini rapiti – hanno scioccato non solo Israele, ma anche una parte del mondo che, fino a quel momento, aveva guardato con malcelato distacco al conflitto israelo-palestinese. L’attacco, pianificato con ferocia chirurgica e amplificato sui social con cinica ostentazione, aveva un messaggio preciso: Israele è vulnerabile, Israele è solo, Israele può cadere.

Ma quel messaggio, lungi dal produrre il panico sperato, ha avuto un effetto diametralmente opposto. Ha risvegliato Israele da un torpore strategico, ha scosso la sua società fino a ritemprarla, e ha rimosso ogni illusione sulla possibilità di “contenere” Hamas, Hezbollah o l’Iran.

L’idea stessa che Israele potesse convivere con un anello di fuoco ai suoi confini è collassata in un solo giorno. La risposta israeliana, seppur dolorosa e controversa sul piano umanitario, è stata implacabile. E continua a esserlo.

L’attacco che doveva annientare Israele ha invece sgretolato i pilastri dell’architettura strategica iraniana. Hamas, ridotto in macerie; Hezbollah, costretto sulla difensiva, ammonito persino dal fragile governo libanese; la Siria, logorata e instabile, ha visto affievolirsi il proprio ruolo di base operativa per Teheran; e gli Houthi, seppur attivi, restano troppo distanti per incidere davvero.

Persino la mitica dissuasione iraniana – costruita a colpi di missili e milizie, e fino a ieri considerata un tabù invalicabile per Israele – è oggi in frantumi. I cieli iraniani sono violati senza risposta credibile. Le centrali nucleari, un tempo protette da un equilibrio di terrore, ora appaiono vulnerabili come mai prima d’ora. Non per caso Teheran è improvvisamente silenziosa. Non per caso le sue minacce si sono fatte rarefatte, quasi sussurrate.

Il vero sconfitto del 7 ottobre, al di là delle rovine di Gaza e del cinismo di Sinwar, è il “modello per procura” su cui l’Iran ha fondato la sua politica espansionista: l’idea di non combattere mai direttamente, ma usare popoli, cause e tragedie come armi contro i propri nemici. Hamas, Hezbollah, le milizie irachene, i ribelli yemeniti: sono stati tutti pedine, mai fine.

Ma quel gioco ha mostrato il suo limite. Perché la strategia iraniana – astuta, ma strutturalmente viziata – presupponeva che nessuno avrebbe osato sfidarla frontalmente. Presupponeva che Israele, impantanato nei suoi dilemmi interni, sarebbe rimasto fermo. Che l’Occidente, pavido e in crisi morale, avrebbe chiuso gli occhi. Che le masse arabe, nutrite a retorica, si sarebbero sollevate.

Nessuna di queste previsioni si è realizzata. L’Occidente, almeno in larga parte, ha riconosciuto la natura barbarica dell’attacco. Le capitali arabe, lungi dal ribollire di rivolta, hanno invece preso le distanze. E Israele ha dimostrato una determinazione ferrea, ben più potente di quanto Sinwar e Khamenei potessero immaginare.

Paradossalmente, l’atto che doveva sancire l’inizio della fine di Israele ha finito per segnare un’inversione di tendenza nel Medio Oriente. L’egemonia ideologica dell’Iran si sta riducendo. La solidarietà cieca e ideologizzata verso Hamas comincia a incrinarsi. I Paesi del Golfo, che da tempo valutano una normalizzazione con Israele, ora vedono con ancora più diffidenza le manovre destabilizzanti di Teheran.

Non si tratta di un trionfalismo ingenuo: Israele resta circondato, le tensioni non mancano, e le ferite del 7 ottobre sono aperte e profonde. Ma qualcosa è cambiato in modo irreversibile. La narrativa di un Israele eternamente assediato, costretto alla reazione perpetua, lascia spazio a un nuovo paradigma: quello di uno Stato che non accetta più di vivere sotto ricatto.

Il sogno di Sinwar era apocalittico. Credeva – davvero – che un atto di terrore potesse diventare un punto di non ritorno. Pensava che il massacro di civili fosse l’innesco di una rivoluzione regionale. In questo, la sua ideologia ha mostrato il volto più pericoloso: quello che confonde la distruzione per strategia, il martirio per vittoria, la crudeltà per visione politica.

Il suo errore non è stato solo morale, ma storico. Ha scambiato la brutalità per potere. E ha sottovalutato la resilienza di chi, da ottant’anni, vive sotto minaccia esistenziale.

La storia, a volte, sa essere ironica. L’attacco del 7 ottobre, pensato per cancellare Israele, ha invece messo a nudo l’inconsistenza della strategia iraniana, la solitudine di Hamas, e il vuoto che si cela dietro la retorica incendiaria del fronte anti-Israele.

Il Medio Oriente non è diventato “libero da Israele”. Ma si sta forse liberando di chi ha sempre usato la distruzione di Israele come alibi per la propria sete di potere.

E tutto è cominciato con un sogno apocalittico, diventato incubo. Non per Israele. Ma per chi pensava di annientarlo.

 

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