di Angelica La Rosa
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IL SILENZIO È GIÀ COMPLICITÀ
Nel cuore dell’Europa orientale, un dramma silenzioso si consuma nell’indifferenza generale: la persecuzione sistematica della Chiesa cattolica in Bielorussia.
Non si tratta di episodi isolati o di questioni amministrative tra Stato e Chiesa, ma di una repressione metodica, mirata e crescente, che colpisce sacerdoti, fedeli e strutture ecclesiastiche, in un clima che ricorda sinistramente l’era sovietica.
Oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta dell’URSS, riaffiorano gli stessi metodi: arresti arbitrari, processi a porte chiuse, accuse infamanti, torture psicologiche, condanne spropositate e un controllo asfissiante della vita religiosa.
Il caso di padre Genrich Okolotovič, condannato a 11 anni di carcere per un presunto tradimento mai dimostrato, e quello ancor più inquietante di padre Andrzej Juchnevič, missionario oblatino condannato a 13 anni con accuse gravissime e improbabili, sono il volto visibile di un’aggressione orchestrata contro la fede cattolica.
Le accuse, tanto infamanti quanto opache, sembrano costruite ad arte per colpire la credibilità e l’onore di sacerdoti stimati da anni. Ma ciò che preoccupa di più non è solo la brutalità delle sentenze, bensì il disegno politico che vi si intravede: annientare il ruolo pubblico della Chiesa, zittirla, renderla irrilevante.
Non è un caso che le repressioni siano iniziate dopo le proteste del 2020, quando alcuni vescovi e laici cattolici denunciarono apertamente i brogli elettorali e la violenza del regime di Lukašenko. Da allora, ogni voce libera è stata sistematicamente schiacciata.
La guerra in Ucraina ha poi inasprito lo scontro: il semplice fatto che molti cattolici abbiano espresso empatia verso la nazione aggredita ha generato nuove ondate di sospetto e repressione.
Non sono solo i pulpiti ad essere nel mirino, ma anche i profili social. Sacerdoti costretti a cancellare le proprie pagine, mentre la polizia politica recupera vecchi screenshot per trasformarli in “prove” di reati d’opinione.
Anche una semplice foto con la bandiera bianco-rosso-bianca – simbolo dell’indipendenza bielorussa – può trasformarsi in un capo d’accusa. L’intimidazione è quotidiana, capillare, capace di colpire anche chi è stato liberato, costretto all’esilio o all’oblio.
Di fronte a tutto questo, la domanda che brucia è: dov’è l’Occidente? Dove sono le voci della libertà religiosa, i governi che parlano di diritti umani, i grandi media, i leader cristiani d’Europa? La verità è che il silenzio è assordante.
Troppo spesso si preferisce il quieto vivere diplomatico alla denuncia aperta di un’ingiustizia che grida al cielo. Ma restare in silenzio oggi, significa diventare complici. Non si tratta solo di difendere alcuni uomini innocenti, ma di salvaguardare la libertà stessa della Chiesa di annunciare il Vangelo, di educare i giovani, di curare le ferite spirituali di un popolo.
La Chiesa cattolica in Bielorussia è una minoranza viva, fedele, capace di coesistere con la cultura ortodossa e di testimoniare la fede in condizioni difficili. Per questo fa paura a un regime che non tollera né autonomia morale né autorità spirituali che non siano asservite al potere. La sua sola esistenza, la sua coerenza evangelica, la sua solidarietà con i più deboli sono percepite come una minaccia.
Eppure, i volti di questi sacerdoti – padri, pastori, martiri del nostro tempo – ci obbligano a non voltare lo sguardo. Essi ci ricordano che il Vangelo è ancora oggi pietra di scandalo e segno di contraddizione. Padre Andrzej, come padre Genrich, come tanti altri nomi meno noti ma non meno colpiti, sono lì a gridarci che la libertà religiosa non è un concetto astratto, ma la carne viva di uomini che oggi soffrono per il nome di Cristo.
Spetta a noi rompere il muro dell’indifferenza, informare, denunciare, pregare, sostenere. Perché nel XXI secolo nessuno dovrebbe più essere perseguitato per aver portato una croce, detto una Messa o alzato la voce per la giustizia. E se ciò accade, il silenzio non è più un’opzione: è già colpevole.