–
LA QUESTIONE DELLA CRIOCONSERVAZIONE DEGLI EMBRIONI UMANI ALLA LUCE DEL DIRITTO NATURALE CLASSICO
Nel cuore della riflessione filosofica sul senso dell’umano, la questione dell’embrione crioconservato si impone come una sfida ontologica e morale radicale. Essa non riguarda tanto un fatto biologico o un’esigenza tecnico-scientifica, quanto l’intelligenza dell’essere umano in quanto tale, il suo statuto ontologico e la possibilità stessa di fondare la convivenza civile su un ordine giusto. In gioco non è soltanto il destino di vite umane in potenza di sviluppo, ma la verità dell’uomo, la misura della giustizia e, in definitiva, la possibilità del diritto stesso.
L’embrione umano, nella sua primissima fase di esistenza, non è una “cosa in attesa” di diventare persona, ma è già, in se stesso, soggetto ontologicamente pieno. La sua piccolezza, la sua apparente inconsistenza, non toglie nulla alla realtà della sua forma sostanziale. Esso è un essere umano in atto secondo la sua natura propria, che si dispiega nel tempo secondo un ordine intrinseco. La vita umana, infatti, non è sequenza di stati giuridici o funzioni sociali, quanto una unità sostanziale indivisibile, in cui l’essere precede ogni possibile qualificazione esteriore. Secondo il diritto naturale, che è partecipazione razionale dell’uomo alla legge eterna, ogni ente umano possiede un valore incommensurabile non per ciò che fa, bensì per ciò che è.
L’essere persona non è, allora, frutto di un riconoscimento sociale o giuridico, ma è il dato primo, l’assioma ontologico da cui muove ogni altra determinazione. Il principio dell’inviolabilità della vita non si fonda su convenzioni culturali, ma su una verità razionale che discende dalla natura dell’uomo quale animale razionale, dotato di fine proprio e irriducibile a ogni finalità eteronoma. L’embrione umano partecipa pienamente a tale natura, poiché in esso è già presente, in atto iniziale e non meramente potenziale, il principio formale della razionalità, che ne informa l’intero sviluppo.
In questa prospettiva, la crioconservazione dell’embrione introduce una discontinuità artificiale nell’ordine naturale. Essa rappresenta una sospensione innaturale dell’atto vitale, un’interruzione forzata del “telos” intrinseco dell’essere umano, che tende a svilupparsi secondo la propria forma. Congelare un essere umano nel suo stadio iniziale significa esercitare un potere che non è dominio legittimo, ma arbitrio tecnico. Significa trattare l’essere umano non come fine in sé, bensì come mezzo: mezzo per la procreazione futura, mezzo per la ricerca, mezzo per il soddisfacimento di volontà altrui. È l’instaurarsi di una logica strumentale che rovescia l’ordine assiologico naturale: non più la persona come misura delle cose, semmai le cose come misura della persona.
La volontà tecnica che presiede alla crioconservazione non è neutrale: essa è espressione di un’antropologia implicita che riduce la persona alla sua funzionalità biologica, alla sua visibilità, alla sua capacità di relazione. Tuttavia, la verità dell’uomo non si lascia ridurre a tali parametri: essa affonda le sue radici in un principio metafisico, in una forma intelligibile che rende l’uomo ciò che è, indipendentemente da ogni sguardo esterno. L’embrione non “diventerà” uomo se tutto andrà bene; esso è già uomo nella sua essenza e, come tale, merita rispetto assoluto. Il diritto naturale, in merito al tema oggetto di trattazione, insegna che la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo. Ora, il “suo” non è determinato dalla volontà di chi detiene il potere, bensì dalla natura stessa dell’essere. E poiché l’embrione è persona umana, il “suo” è la tutela, il rispetto, la possibilità di compiere il proprio fine naturale.
Ogni gestione che non riconosca questa verità si pone al di fuori dell’ordine giusto e introduce nell’agire umano un’asimmetria profonda tra ciò che è e ciò che si vuole. Il volere, peró, non può fondare l’essere, né la tecnica può sostituirsi alla sapienza che riconosce l’ordine delle cose. Così, la riflessione sul destino degli embrioni crioconservati diventa una riflessione sull’uomo, sulla sua origine e sul suo fine, sulla possibilità di un ordine giusto che rispetti la verità dell’essere. In un’epoca che ha elevato la libertà negativa a principio assoluto, è necessario ricordare che questa (la libertá) è vera solo se orientata al bene e che il bene si scopre, non si inventa. L’embrione ci interpella proprio in questo: non ci chiede consenso, ma riconoscimento; non rivendica diritti, ma reclama giustizia. E la giustizia, nella sua forma più alta, è sguardo che riconosce l’essere e si inchina davanti alla sua inviolabile dignità.
Ne consegue che lo stato di crioconservazione, in quanto condizione artificiale e contraria all’ordine teleologico naturale della vita umana, non può essere considerato moralmente e giuridicamente neutro. Non è conforme alla giustizia naturale il mantenere a tempo indefinito degli esseri umani in una condizione di sospensione esistenziale, privandoli dell’atto proprio del vivere secondo la loro forma. Ma in concreto, che cosa si deve fare? Il diritto naturale comanda che si restituisca all’essere umano la possibilità di compiere il proprio fine.
Per gli embrioni crioconservati già esistenti, ciò significa che l’unica strada moralmente lecita è quella di consentire loro di essere impiantati nel corpo di colei che può accoglierli non come un oggetto da possedere, quanto come un figlio da accogliere. Tale impianto non può mai essere frutto di un mercato, di una pianificazione produttiva o di un progetto volontaristico: esso deve avvenire nella misura in cui si realizza un atto di giustizia e di restituzione all’ordine della natura. Nel caso in cui non fosse possibile l’impianto, a causa dell’impossibilità materiale o dell’esaurimento del tempo utile alla gestazione, non è lecito né distruggere l’embrione né mantenerlo congelato “sine die”. In tali casi estremi, la ragione naturale riconosce che, non potendo più assicurare la “restitutio in integrum” della vita biologica attiva, si deve accompagnare l’embrione con la stessa “pietas” che si deve ai defunti: non come cosa inservibile, ma come persona a cui si rende l’onore dovuto.
Ogni “smaltimento” è sacrilego; ogni trattamento impersonale, disumano. Si potrebbe obiettare che questa soluzione costituisca una legittimazione indiretta della vergognosa pratica della c.d. “maternità surrogata”. L’obiezione, in realtá, non regge e risulta alquanto superficiale. Qualsiasi accostamento tra le due pratiche risulterebbe fondato su un equivoco di tipo materialistico, che si limita a considerare la somiglianza esteriore dell’atto dell’impianto, omettendo di distinguere ciò che nella filosofia morale e nel diritto naturale classico è essenziale: la causa formale e la finalità intrinseca dell’azione. Da ultimo ed in conclusione, la legge naturale impone che si ponga fine a ogni prassi che produca nuovi embrioni per poi crioconservarli.
La procreazione umana, per la sua natura, deve avvenire nell’unità dell’atto coniugale aperto alla vita, dove la generazione non è produzione, ma cooperazione con l’ordine creato. La crioconservazione non è una risposta eticamente accettabile all’infertilità: è il frutto di una logica produttivistica che contraddice la natura stessa della generazione umana.