13 Luglio 2025

di Angelica La Rosa 

LA VERA RINASCITA NON SI SIMULA…

In un mondo che ha smarrito il senso autentico della vita, era forse inevitabile che si tentasse anche di imitare la morte.

La notizia giunge dalla Corea del Sud, terra segnata da progresso tecnologico e intensa competizione sociale: fioriscono i cosiddetti death cafés, luoghi dove ci si chiude in una bara per dieci minuti, si scrive un testamento simbolico, si indossa una tunica bianca e si vive, per quanto possibile, una morte “simulata”. All’uscita dalla bara i partecipanti dicono di sentirsi rinati, più grati, più presenti a se stessi.

Non possiamo guardare con indifferenza a questo fenomeno. Dietro l’inquietudine e lo sconcerto che può suscitare in un’anima cristiana, si cela una domanda autentica, anzi, la più radicale di tutte: che senso ha la vita se tutto finisce nella morte? Ma la risposta che viene proposta — quella della simulazione, dell’illusione rituale di una morte che non salva — è solo un’ombra della verità.

I giovani e gli adulti coreani che cercano rifugio nella Coffin Academy non sono dei cinici. Sono uomini e donne feriti, stanchi, logorati da un sistema sociale che schiaccia l’individuo sotto il peso del successo e della perfezione.

Cercano una via di fuga, un momento per respirare, un’occasione per domandarsi: “che senso ha tutto questo?” È una domanda profondamente spirituale, ma la risposta offerta è solo un esercizio psicologico travestito da rito.

Chiudersi per dieci minuti in una bara non è un’esperienza di morte. È una messinscena. E se anche potesse produrre una qualche momentanea pace interiore o un rinnovato senso di gratitudine, resta una costruzione umana che non si confronta con la verità della morte, né tantomeno con il Mistero della Vita.

L’essere umano non può accontentarsi di una mindfulness in chiave funebre. La sete che lo muove è sete di eternità, di senso, di amore duraturo, non di un’esperienza ansiolitica. La vera pace, infatti, non si ottiene simulando la morte, ma guardando in faccia la morte alla luce della Croce di Cristo.

Solo lì, dove il Figlio di Dio ha vinto la morte con la sua Risurrezione, nasce la vera speranza: non quella psicologica e passeggera, ma quella teologale, che sostiene l’anima anche nella notte più buia.

I cristiani, fin dai primi secoli, hanno contemplato la morte come sorella e maestra. Ma non lo facevano chiudendosi in una bara, bensì inginocchiandosi davanti al Crocifisso, meditando sui Novissimi — morte, giudizio, inferno e paradiso — con lo sguardo fisso sul Volto misericordioso del Padre.

Per il cristiano, la morte non è un teatro, ma un passaggio. Non è un oggetto di esperimento, ma una realtà che chiama alla conversione quotidiana.

Rinascere davvero

Se l’obiettivo è “rinascere”, come dicono i frequentatori dei death cafés, allora c’è una via ben più potente: il confessionale. Sì, la vera rinascita non avviene nella tenebra di una bara, ma nella luce della Grazia. Là dove l’uomo riconosce i suoi peccati e si lascia abbracciare dalla misericordia di Dio, lì avviene una resurrezione vera, profonda, soprannaturale.

E non si tratta solo di simboli. In quel Sacramento si muore al peccato e si rinasce alla vita della Grazia. È questa l’esperienza che il cuore umano attende, anche quando — confuso e ferito — si rifugia in esperienze estreme e simboliche. È lì, nel cuore della Chiesa, che si trova ciò che l’anima cerca.

Questi death cafés ci rivelano anche una ferita più profonda: l’assenza del Vangelo nei luoghi più sviluppati e, al tempo stesso, più spiritualmente deserti del mondo. La Corea del Sud, nonostante una minoranza cristiana attiva, è un paese dove molti vivono senza riferimenti religiosi, schiacciati dalla cultura della prestazione, dell’efficienza e del successo. In questo deserto fioriscono illusioni spirituali, surrogate di sacro che non salvano.

Ecco perché è urgente evangelizzare, annunciare la speranza cristiana a chi, nel silenzio di una bara finta, cerca disperatamente di ritrovare il senso della vita. Dobbiamo portare Cristo a chi non lo conosce, perché solo Lui può dire, con autorità e verità: “Io sono la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25).

La bara che salva non è quella di legno dei death cafés, ma quella vuota del mattino di Pasqua. Il lenzuolo piegato nel sepolcro non parla di ansia o di psicoterapia, ma della sconfitta della morte. Là è la nostra speranza. Là è la vera rinascita. E là dobbiamo condurre, con dolcezza e verità, ogni fratello e sorella che, nella confusione del mondo moderno, cerca pace nei simulacri della morte, anziché nella Vita vera che viene da Dio.

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