di Angelica La Rosa
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IL RITORNO DEL SILENZIO E DEL TEMPO DEL DISCERNIMENTO
Silenzio, attesa, cautela. Non sono esattamente i verbi che avevamo imparato ad associare al papato negli ultimi dodici anni. Dopo l’elezione di Francesco, tutto sembrava urgente, rapido, irreversibile. Il nuovo Pontefice, Leone XIV, ha scelto un’altra grammatica del potere: quella della sospensione. Non dell’inerzia – perché sarebbe ingiusto e sbagliato – ma dell’ascolto, del tempo lungo, della decisione che matura come il frutto su un albero d’inverno.
A un mese e mezzo dalla sua elezione, Papa Robert Francis Prevost – agostiniano, americano, ex missionario in Perù – non ha ancora operato alcuna nomina significativa. La Curia resta congelata nello stato fluido del donec aliter provideatur. I prefetti sono in carica “fino a nuovo ordine”, e di nuovo ordine, finora, non s’è vista traccia. Non un cambio al vertice, non un segnale eclatante. Solo piccoli gesti, a bassa visibilità, che però indicano una direzione.
Molti si interrogano. Soprattutto tra i cardinali, abituati alla frenesia riformatrice dell’era Bergoglio, si fa strada un misto di perplessità e inquietudine. “Quando comincerà davvero?”, mormora qualcuno nei corridoi del Palazzo Apostolico. Ma forse la vera domanda è un’altra: cominciare cosa? E a che prezzo?
Prevost non è un rivoluzionario ma un contro-rivoluzionario. Chi cercava la linea netta, la discontinuità marcata o il ritorno a un’epoca precedente, resta deluso. Ma anche chi temeva una prosecuzione automatica del corso precedente si accorge che qualcosa è cambiato. Il nuovo Papa parla poco, prega molto e soprattutto ascolta. Non solo i suoi collaboratori, ma il tempo, la realtà, le ferite della Chiesa.
Un suo collaboratore lo descrive così: “Ha lo stile dell’accompagnatore spirituale. Ti lascia parlare molto. Poi ti guarda e dice una frase che non dimentichi più”. E forse è proprio questo lo stile che intende portare nel governo della Chiesa: meno parole, più sintesi. Meno gesti clamorosi, più conversioni lente.
Ha ricevuto Sean O’Malley, il cardinale cappuccino che da mesi chiedeva un segno di distanza da Rupnik e dalle sue ombre. Nessun comunicato, nessuna dichiarazione. Ma qualche giorno dopo, silenziosamente, ogni riferimento all’ex gesuita sloveno è sparito dai canali vaticani. La mano di Leone c’è, ma si muove come un restauratore di affreschi: invisibile, paziente, determinata.
La sua prima Enciclica, si dice, potrebbe riguardare proprio l’unità della Chiesa. Il motto scelto – In illo uno unum – è più che una dichiarazione d’intenti: è una strategia ecclesiale. Perché l’unità, oggi, è minacciata non tanto dalla dottrina quanto dalle polarizzazioni. Leone lo sa. Ha visto la Chiesa americana frantumarsi in fazioni. Ha visto le liturgie diventare trincee. Sa che l’urgenza non è riformare le strutture, ma guarire i cuori. E che a volte serve più tempo a guarire che a tagliare.
Ai seminaristi, nei giorni scorsi, ha lasciato parole che sembrano un autoritratto: “Il cuore deve diventare capace di synballein – di mettere insieme i frammenti. Guardatevi dalla superficialità”. Un Papa che medita più che agisce, che tace più che twitta, che si ferma invece di correre, può sembrare un paradosso in tempi iperveloci. Ma forse è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.
Non è immobilismo. È il ritorno al silenzio come spazio politico. Alla preghiera come metodo di governo. Alla pazienza come forma di forza. Leone XIV non stupisce. Ma sorprende. E questo, in un’epoca di rumore, potrebbe essere il primo vero segno del cambiamento.