11 Luglio 2025

L’esempio italiano in Crimea

di Matteo Castagna

L’OLOCAUSTO SCONOSCIUTO: LO STERMINIO DEGLI ITALIANI DI CRIMEA

Le Edizioni Settimo Sigillo di Roma hanno il grande merito di aver pubblicato un pamphlet, tradotto anche in russo e in ucraino, dal titolo: “l’olocausto sconosciuto: lo sterminio degli italiani di Crimea” (prima edizione nel 2008 – ristampato nel 2013). Si tratta di una storia drammatica, che merita di essere raccontata. Gli autori sono il Prof. Giulio Vignoli, docente di Diritto Internazionale all’Università di Genova e Giulia Giacchetti Boico, nipote di deportati e memoria storica della Comunità italiana di Kerc, in Crimea.

Premesso che le prime tracce di una consistente presenza italiana in Crimea risalgono al 1266, quando la repubblica marinara di Genova avviò una massiccia colonizzazione che nell’arco di due secoli la portò ad occupare saldamente la costa meridionale della penisola dove fondò numerose città. Nella seconda metà del Quattrocento il territorio fu occupato dai Turchi e gli italiani tornarono precipitosamente a casa.

Nel corso del XIX secolo alcune migliaia di italiani emigrarono verso questa regione, all’epoca appartenente alla Russia degli zar. L’affluenza massiccia degli italiani fu inizialmente sollecitata da emissari zaristi inviati nel Regno delle due Sicilie a reclutare agricoltori, giardinieri, pescatori, muratori e artigiani. L’idea era quella di ripopolare la Crimea, sfruttando al massimo le potenzialità economiche di una regione che già a quel tempo era la meta turistica privilegiata della nobiltà moscovita.

Attratti dalla fertilità delle terre, dalla pescosità dei mari e quindi dalla prospettiva di sottrarsi alla miseria, migliaia di italiani provenienti soprattutto dalle coste pugliesi ma anche dalla Liguria, dal Veneto e dalla Campania portarono con sé il proprio dinamismo e anche idee brillantissime: vitigni pregiati, ulivi di diverse varietà, prodotti ortofrutticoli talvolta sconosciuti. Anche i pescatori si distinsero per la loro bravura, dirizzando la cucina locale – molto povera – e diffondendo tra l’altro la pesca e la consumazione dei frutti di mare. Verso la fine del secolo aprirà, sempre per iniziativa di un italiano, la prima fabbrica per la conservazione del pesce sotto sale, e anche il commercio era in gran parte gestito dai nostri connazionali.

Questa minoranza nazionale della Crimea, ignorata da chi avrebbe dovuto alzare la voce e assolutamente sconosciuta all’opinione pubblica, fu perseguitata da Stalin e, nel 1942, deportata in massa in Kazakistan e Uzbekistan. Si tratta di una storia di razzismo, odio, fame, stenti, torture, morte per molti nelle steppe dell’Asia. Tuttora, leggendo la numerosa mole di testimonianze raccolte, appare necessaria, come scrive l’autrice, una sensibilizzazione dell’Italia e dell’Ucraina in merito alle precarie condizioni in cui vivono i sopravvissuti in Crimea e alla diaspora negli stati della ex Unione Sovietica. Serve rendere giustizia.

Durante le “purghe” del 1933-37 molti italiani, accusati ingiustamente di essere delle spie, furono arrestati, torturati e fucilati, altri mandati nei lager, dove morirono quasi tutti. Si doveva ottenere la completa russificazione del territorio. Persino Chruscev, “nel suo rapporto al XX Congresso del PCUS (febbraio 1956) definì questa immane deportazione quale un “brutale, mostruoso genocidio di popoli” ed aggiungeva che “gli ucraini erano sfuggiti a questa sorte solo perché erano troppi (circa 40 milioni) e non vi era luogo dove deportarli”. Nel viaggio nei carri bestiame morirono di stenti circa 500 italiani.

Giunti a destinazione, uomini, donne, vecchi e anche ragazzini venivano obbligati alla schiavitù della Trudarmia, che è la sigla dell’Armata del lavoro in russo. Si trattava di lavori coatti per gente dai 14 anni in su, appartenenti alle categorie “sospette”, cioè kulaki e alcune minoranze nazionali, tra cui Italiani, Tedeschi, ecc. già deportate o no. Venivano chiusi in baracche sorvegliate, lavoravano con accanto guardie armate e non disponevano di alcun diritto, mentre ogni desiderio veniva negato.

La loro colpa era solo quella di non essere della razza di Stalin. Come avvenne con il Maresciallo Tito in Friuli, nella Venezia-Giulia, nella Dalmazia, in Istria. Accusati di essere italiani venivano infoibati, mentre in Ucraina venivano mandati ai lavori forzati, come fossero dei coscritti per la manodopera gratuita, tra cui caricare e scaricare merce, scavare trincee, abbattere alberi, dissodare la terra ecc.

Eh sì, nel “paradiso socialista” la discriminazione razziale e l’internamento nei lager erano destinati ai “non slavi”, che venivano mandati nei gulag se avevano commesso presunti reati, oppure nei Trudarmia se i comunisti non avevano trovato scuse per incriminarli di qualcosa. Dopo la morte di Stalin, negli anni ’50 alcuni italiani tornarono a Kerc e così altri, negli anni successivi. Ma l’URSS aveva confiscato tutti i loro beni (case, terreni, ecc.) per cui dovettero adattarsi, in uno stato che continuava a discriminarli.

L’Associazione Italiani di Crimea nacque nel 1992, dopo la caduta dell’URSS. Con la perestrojka essa censiva circa 350 persone, perché molte non erano state raggiunte oppure non dichiaravano la nazionalità per paura di ritorsioni. La rivista Aspenia, proprio nel 2014, denunciava la situazione: “Oggi, nel cuore della crisi internazionale del momento, c’è un piccolo gruppo di circa 300 persone che guarda con ansia e con grande speranza alla madrepatria d’origine: gli italiani di Crimea. Una comunità ridotta al lumicino, ma con alle spalle una grande storia di intraprendenza, che fino alla Rivoluzione d’Ottobre ne aveva fatto una delle minoranze etniche più ammirate e più ricche della regione. Ma gli italiani, che nel frattempo si contavano a migliaia e che si erano concentrati soprattutto nelle cittadine costiere e in particolare a Kerch, si distinsero anche nelle attività intellettuali”.

In Crimea si erano infatti trasferiti pure musicisti, avvocati, medici, scrittori e architetti. La prima e per lungo tempo unica chiesa cattolica della regione, costruita a Kerch nel 1840, fu disegnata dall’architetto piemontese Alessandro Digbi, al quale si devono anche i principali edifici storici del centro. Via Italia e via Genova erano due delle strade più importanti di Feodosiya, altra cittadina con una nutrita comunità di italiani. In Crimea approdò più volte col brigantino genovese Clorinda il giovanissimo mozzo Giuseppe Garibaldi. Anzi, fu proprio nel corso di uno dei suoi viaggi in Crimea che al porto di Taganrog, nel 1833, conobbe Giambattista Cuneo, il quale gli trasmise gli ideali della Giovine Italia. I nostri connazionali, tutti in possesso della doppia cittadinanza, si erano perfettamente integrati nel tessuto locale.

A fine Ottocento venne anche aperto un ufficio consolare a Kerch, in considerazione della consistenza della nostra comunità e dell’importanza commerciale del porto, posto all’imboccatura dello stretto che divide il mar Nero dal mar d’Azov. Nel censimento cittadino del 1897 gli italiani erano l’1,8% della popolazione, nel 1921 il 2%. Secondo alcune statistiche, quando i bolscevichi presero il controllo della Crimea gli italiani di Kerch erano circa 3.000. I nostri connazionali si esprimevano in dialetto – soprattutto pugliese – o al massimo in un italiano approssimativo. Per sopperire a questa carenza, agli inizi del Novecento fu aperta a Kerch una scuola elementare italiana, poi chiusa durante l’epoca staliniana. Sempre agli inizi del secolo scorso il principale quotidiano cittadino pubblicava spesso articoli in altre lingue, fra cui l’italiano. L’avvento del comunismo segnò la fine del benessere economico e l’inizio delle persecuzioni. Subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, spaventate dalla prospettiva di un esproprio generalizzato alcune decine di famiglie decisero di tornare prudentemente in Italia, trasferendosi quasi tutte a Roma.

Chi restò a Kerc fu costretto ad entrare nel kolchoz “Sacco e Vanzetti”, creato apposta per gli italiani negli Anni Venti. Nel 1932 le autorità sovietiche decisero anche di chiudere la chiesa, trasformata in una palestra. Nonostante fosse obbligatorio, al kolchoz aderì meno della metà degli italiani censiti. Gli altri, o riuscirono a scappare in Italia (stabilendosi in gran parte a Trieste, che tutt’oggi ospita diverse famiglie di loro figli e nipoti) o furono vittime delle purghe staliniane.

L’inverno ’41-’42 fu particolarmente rigido. Agli italiani, ammassati sulla banchina del porto di Kerch, fu spiegato che li spostavano altrove per “garantire la loro sicurezza”. In realtà furono imbarcati su due navi dirette verso il Caucaso. Per una delle due imbarcazioni il viaggio finì subito, perché appena partita fu centrata da una bomba e affondò: tutti gli italiani a bordo morirono annegati.

L’altra nave raggiunse invece il porto sovietico di Novorossijsk e da lì incominciò un viaggio di oltre 8.000 chilometri in treno, nei vagoni piombati, che durò più di due mesi. Dopo l’attraversamento del Caucaso, del mar Caspio e delle steppe dell’Asia Centrale, quanti erano rimasti in vita furono dispersi nei Gulag del nord del Kazakhstan. Il freddo e la fame e le malattie avevano infatti decimato la nostra comunità già durante il viaggio, come documentato dalle testimonianze dirette raccolte da Giulia Giacchetti Boico, presidente dell’associazione Cerkio che raggruppa i discendenti dei deportati italiani di Kerch.

Oggi l’associazione Cerkio si batte su diversi fronti. La chiesa di Kerch è stata riscattata dal comune, rimessa a posto a spese della nostra comunità e infine riaperta al culto. I giovani, cresciuti nella venerazione dell’Italia, studiano italiano nella minuscola sede dell’associazione e molti di loro sognano un futuro qui da noi. I vecchi, prima di morire, vorrebbero coronare il sogno di visitare i luoghi dai quali partirono nell’Ottocento i loro antenati.

All’Italia ufficiale chiedono di occuparsi finalmente di loro, dopo anni di oblio. A differenza di un secolo fa si tratta di una comunità molto povera, sfiduciata e delusa. Tra i loro obiettivi: la ricostruzione dell’albero genealogico, premessa per riottenere la cittadinanza italiana (non perduta, ma rubata); una corsia preferenziale per poter venire a studiare o a lavorare in Italia; il consolidamento dei rapporti coi Comuni pugliesi di origine, appena riavviati; l’apertura di una Casa della Cultura Italiana a Kerch, dove riunirsi per coltivare la nostra lingua, la nostra cultura e le nostre tradizioni. In questi anni di guerra e tensioni, la preoccupazione della nostra minoranza in Crimea è grande.

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