di Francesco Bellanti
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PARLA GAIO GIULIO CESARE (Roma, 13 luglio 101 a.C. o 12 luglio 100 a.C. – Roma, 15 marzo 44 a.C.)
Da oggi il professore Francesco Bellanti, nostro collaboratore, curerà una rubrica – che non avrà una periodicità rigida – sui personaggi e sui fatti più importanti della storia e della civiltà umana visti sempre da un punto di vista critico.
Voi pensate di avere ucciso me? Vi sbagliate, le Idi di Marzo del 44 a.C. facevano parte del destino. Bruto figlio di Servilia mia amante, sorella di Catone, Cassio Longino, deluso per non avere avuto il consolato, che organizzò la congiura. I presagi. I delatori. Sapevo tutto. Avevo già fatto tanto: la storia. Perché io sono la Storia. Io sono l’algido massacro e la pace impetuosa, io sono la travolgente e turbinosa corsa dei millenni, con le sue cadute rovinose e le sue fulgenti rinascenze; io sono il punto da cui tutto comincia, io sono l’ora fatale, io sono un nome immenso: Cesare.
Io sono il Questore, l’Edile, il Pretore, il Generale invincibile, il Propretore, il Console, il Proconsole, il Dittatore, il Dittatore Perpetuo, il Pontefice Massimo, il Padre della Patria, il Divo Giulio. Io sono l’imperator, il più potente dei triumviri, l’indiscusso capo dei popolari, il conservatore e il rivoluzionario, io sono l’invitto stratega, il geniale statista e condottiero, l’assoggettatore dei barbari; io sono il conquistatore delle Gallie, il vincitore, lo sterminatore dei Britanni e dei Germani, il glorioso trionfatore sui popoli, io sono il supremo comandante dell’esercito più grande della storia. Io sono l’avvocato e oratore splendido, magnifico, acuto ed elegante, il profondo grammatico analogista e il filologo, l’astronomo e il riformatore del calendario moderno; io sono il poeta, il tragediografo, lo scrittore e storico, io sono il creatore di una prosa letteraria insuperabile, unica e ineguagliabile per bellezza e semplicità, io sono l’immortale scrittore del De bello Gallico e del De bello civili.
Io sono l’uomo del destino, il signore di Roma, l’uomo più grande della latinità, io sono l’intelletto più vasto della stirpe, il fondatore dell’Impero, del più grande organismo politico dell’universo. Io sono il duce clemente, spietato e generoso, rapido e sicuro, io sono il travolgente dominatore della storia universale, io sono l’uomo al cui cospetto la paura diventava forza e la morte vita. Io sono l’uomo che ha dato il suo nome ai re e agli imperatori del mondo, io sono l’uomo che con il suo genio perfetto in quindici anni fece quel che nessuno fece mai – né Alessandro Magno, né Carlo Magno, né Gengis Khan, né Carlo V, né Napoleone Bonaparte, né Hitler. Io sono l’uomo che non ebbe mai bisogno di un epiteto o di un cognome ma fu, per una volta e per sempre, soltanto Cesare.
Io sono l’uomo che fondò la civiltà più duratura della storia, culla delle future civiltà del mondo, io sono l’uomo dinanzi al quale si apriva solenne lo spazio e s’inchinavano i millenni, l’uomo di cui pure si disse che la maestà e la vastità del suo ingegno restarono sempre più in alto delle sue fortune, io sono l’uomo immenso che non parve veramente un uomo ma un dio. Io ho trasformato un popolo di roncole e di poveracci, di morti di fame, di contadini miserrimi, in un formidabile esercito di conquistatori. Che fa, dopo le prime scaramucce, li mandavo a casa e perdevo l’occasione di impadronirmi del mondo intero? Di civilizzare il mondo? Una democrazia del genere di quella romana richiedeva un efferato sfruttamento coloniale. Del resto, la storia vuole dai suoi attori principali straordinari e magnifici delitti, e Gaio Giulio Cesare aveva troppa dignità per compiacersi di un obiettivo così scadente, quale doveva essere la difesa dei confini dell’impero. Le guerre non sono mai difensive. Nel De bello Gallico dico la verità.
C’era un continente in movimento, popoli venivano da oriente, dal nord, dall’Africa, alla ricerca di terre, di una patria. Come accade adesso. Si doveva mettere ordine, e io lo misi. Io ho creato l’Europa moderna. Io feci sì che i popoli d’Europa restassero nel posto dove si trovavano e dove si trovano ancora oggi, gli Elvezi nella Svizzera, i Belgi nel Belgio, i Germani di là dal Reno, gli Slavi ad est, i Britanni al nord. Conquistai la Gallia per difendere la Repubblica, ma anche per irradiare da lì la lingua e la civiltà di Roma su tutto il mondo. Sterminai i Germani, sì, ma per allontanarli dalla Gallia, sapevo che quel popolo incorrotto e valoroso avrebbe fatto ancora parlare di sé. Sconfissi eserciti di 300.000 uomini, sette o otto volte superiore al mio, fu un’epopea. Non parlo poi del contributo immenso dato all’antropologia, all’etnologia e alla geografia.
Adesso, l’Europa non è capace di mantenere l’ordine che ho creato io, popoli disperati stanno venendo qui per distruggere l’Europa. Sì, ci fu tanto sangue, ma che cos’era l’Europa allora? Veneti, Galli, Belgi, Britanni, Germani, Usipeti, Tencteri, milioni di uomini in fuga, l’inferno! Questo era l’Europa di allora, un bordello! Ed io sconfiggevo Vercingetorige, Ariovisto, Cassivellauno, Ambiorige, i più grandi condottieri, e infine il capolavoro di Alesia! Scorrazzavo in territori sterminati per mettere ordine e portare la pace, costruire la nuova civiltà, la nuova Europa, l’uomo nuovo! Poteva capitare, dunque, in tanto trambusto, di calpestare qualche ambasciatore, qualche donna, bambini e vecchi! Io sconfissi l’uomo più grande di Roma e del mondo, Pompeo Magno.
Gneo Pompeo Magno era un generale di grande talento, era ambizioso di gloria, era un genio militare, abile organizzatore, uomo brillante, eccezionale, l’homo novus. Era il vincitore dei pirati, di Sertorio, di Mitridate VI re del Ponto, di Tigrane il Grande, era il conquistatore della Siria, di Gerusalemme. Era l’uomo più grande del mondo. Solo lui poteva sposare Giulia figlia di Cornelia e di Giulio Cesare. Fu abbattuto dalla cinica avidità della classe politica che lo circondava. Ma ebbe soprattutto la sfortuna di incontrare Cesare, l’unico uomo più grande di lui. I trionfi! Consegnai all’Urbe il mondo conosciuto, le Gallie, la Numidia, l’Africa, l’Egitto, la Siria, l’Oriente, un’Europa assoggettata e terrorizzata da Roma. Oh, quanti trionfi celebrai a Roma! Porpore, lussi, bottino, prigionieri! Giochi, rappresentazioni teatrali, naumachie! Elargizioni, migliaia di sesterzi, terre! La politica clientelare, le sanatorie a favore dei cavalieri, terre per i veterani di Pompeo, il grande generale come genero… non vi meravigliate, è sempre stato così, la politica del do ut des.
Ottenni un potere immenso, legioni, il proconsolato in Gallia Cisalpina, nell’Illirico, nella Narbonense. Inizialmente volevo allargarmi nei Balcani, poi quel coglione di Burebista re dei Daci si cacò addosso e si ritirò. Tuttavia, col senno di poi, fu un colpo di fortuna: in quel momento, mi sarei impantanato nelle sterminate steppe delle Russie come Napoleone e Hitler, e sarebbe terminata anzitempo la mia carriera. Allora rivolsi le mie attenzioni alla Gallia. Del resto, a ovest sapevo dove finiva il mondo, a est no. Ho fatto di più: ho fondato un nuovo tempo. Fondai nuove colonie, riorganizzai i municipi italici, limitai la durata degli incarichi nelle province. Diedi impulso alla costruzione di fori, templi, circhi. Edificai teatri, basiliche. Allargai le mura della città. Aumentai le assegnazioni di grano ai nullatenenti. Migliorai la circolazione di questa città, che invece oggi è un bordello.
Il nome di Roma risuonò dalla Gallia alla Germania, alle pianure dei Sarmati, in Britannia, nell’Atlantico, in Spagna, in Africa, Grecia, Egitto, Siria, Arabia, Asia. Campagne militari, vittorie, trionfi. Portai la lingua di Roma, una lingua di contadini e di pecorai, in tutto il mondo allora conosciuto, tutto l’orbe terracqueo parla oggi il latino o lingue latine. Feci riforme epocali, come il calendario giuliano. Del resto, non occorre che io faccia il mio panegirico, tutti gli storici moderni o dell’antichità narrarono la mia grandezza. Dopo appena due anni dalla mia morte, il senato mi elevò a divinità, divenni un Dio. Ma non mi interessava una monarchia di tipo ellenistico o orientale, i miei nemici volevano screditarmi per colpirmi. Invece, io potenziai la democrazia. Estesi la cittadinanza romana, rafforzai le assemblee popolari, aumentai il numero dei magistrati, consoli, questori, pretori, edili, senatori.
Io avevo tutto per conseguire la gloria. Munificenza, clemenza, benignità, eloquenza, generosità. Intelligenza, cultura, genio militare. Ero indulgente, giusto, premiavo i miei legionari aumentando la paga e con l’ager publicus. Avevo tutto per essere un grande: alta statura, bellezza, carnagione chiara, eleganza nel vestire, viso pieno, occhi vivaci e svegli, amore per il lusso. Lo disse anche Cicerone, un mio avversario.
Ebbi ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. Le Idi di Marzo erano il mio destino, il mio destino era quello del mondo, ed io non potevo cambiare il destino del mondo che avevo creato. Anche se ventitré coltellate mi impedirono di realizzare l’ultimo sogno. Quale? Conquistare e civilizzare, nel nome della civiltà di Roma, il mondo intero. Avevo in mente un progetto immenso, la creazione di un impero universale. Nel 43 avrei dilagato con il mio immenso esercito in Germania, in Dacia, nelle terre dei Sarmati e degli Sciti, in Persia. Poi, dopo due anni di quiete, avrei realizzato la più straordinaria delle imprese della storia universale: la conquista delle terre di là dell’Indo, l’India, la Cina, il mondo intero.
Stavo organizzando un esercito di cinquecentomila uomini, il più potente di ogni tempo. Sapevo che il mondo era un globo, sarei giunto in quelle terre da Occidente. Era un viaggio contro la religione. Contro il mito, contro la leggenda, contro la superstizione. Contro la storia. Lo spazio allora era sterminato anche per Cesare. Il mondo non era più grande del mio genio e della vastità delle mie concezioni, solo della mia tecnica e delle mie forze. Sì, voi dite altri stermini, altre tragedie, altri lutti e massacri di popoli. Ma la storia lascia dietro di sé bagni di sangue nella sua corsa impetuosa verso il progresso e la civiltà. Io avevo un sogno: creare l’uomo nuovo. E per creare l’uomo nuovo avrei dovuto unificare il mondo intero. Ma dovetti fermarmi. La mia missione finiva lì. Toccava ad altri continuare. Non mancava più niente a Cesare. Io non sono stato solo uno sterminatore. Dopo di me la storia non è stata più la stessa. Il mio nome percorre i millenni. Cesare, Caesar, Càisar, Kaiser, Zar, Scià.
Ho lasciato un’eredità immensa. La civiltà di Roma fondata da me è stata la culla della civiltà occidentale. Perché volevo conquistare il mondo intero? Io volevo creare un nuovo umanesimo, una civiltà in cui fosse l’uomo l’artefice del proprio destino. Per realizzare questo, il mondo doveva essere unificato e in pace, senza possibilità di guerre, sovvertimenti e contaminazioni. Io volevo creare la civiltà della campagna e dell’amore per la natura, per l’arte, per la cultura. La civiltà cantata da Virgilio, da Orazio, da Ovidio. Una civiltà laica fondata sul lavoro, una condizione umana raggiunta poche volte nella storia dell’uomo. Nel Rinascimento, nell’Illuminismo. Una civiltà cosmopolita, tollerante, spensierata, libera, appagata, epicurea. La civiltà della natura. Contro l’Islam e le astratte religioni d’Oriente. Poi è venuta un’altra storia, quella di una religione che, con l’eredità della straordinaria civiltà greco-latina e con l’energia pura e indomita del mondo germanico, ha fondato l’Europa e ha conquistato il mondo: il Cristianesimo. Ma senza l’Impero creato da me non avrebbe vinto. Io ho preparato il terreno ai millenni, a Gesù.