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IL CAMMINO DELL’UMANITÀ È UNA LINEA DRITTA CHE VA DALLA CADUTA INIZIALE FINO ALLA REDENZIONE FINALE
Nulla è più bello di un cielo pieno di stelle. Forse anche per questo tutti hanno guardato al cielo per dare un senso alla propria e alla altrui esistenza. E forse ce ne dimentichiamo, oggi che i cieli ci aggrediscono e sembrano volere la nostra fine. Le stelle sono il destino ultimo del nostro vivere. Le stelle, l’universo intero, sono lo spazio, e lo spazio è il tempo. Non può esistere uno spazio senza il tempo. Esisterà per sempre tutto questo straordinario spettacolo? Ci sarà mai qualcuno che lo ammirerà? È ben noto che nel mondo classico, così come oggi nelle religioni e nelle filosofie orientali, per il Buddismo e l’Induismo in particolare, il tempo è ciclico, cioè giunge sempre un tempo in cui tutto finisce e poi ricomincia, sempre, senza fine, è il tempo della rigenerazione periodica della storia, sia che metta in gioco il mito dell’“eterna ripetizione” o no.
Nella concezione induista, il tempo non è lineare, ma ciclico, ed è organizzato in ere chiamate yuga che si avvicendano in cicli eterni, che si ripetono senza fine, con fasi di creazione, conservazione e distruzione. Anche nel pensiero buddista il tempo non è un flusso che scorre in linea retta ma procede inesorabilmente di ciclo in ciclo, in un percorso circolare in cui passato, presente e futuro sono interconnessi e influenzano costantemente l’esperienza personale, anche se prevale l’idea che il presente è considerato il punto focale della consapevolezza e della crescita spirituale, mentre il passato e il futuro appartengono alla sfera mentale e possono arrecare attaccamento e ansia. Del resto, la saggezza del Buddismo consiste nella fede nell’impermanenza di tutte le cose. Ad ogni modo, l’universo esisterà sempre, perché nasce, tramonta e declina, si dissolve e poi rinasce, e, se anche il tempo è impermanente, esso ritorna, e il raggiungimento del Nirvana, la pace assoluta per la liberazione dal ciclo delle rinascite, è sempre un’esperienza individuale. Il Buddha insegna la liberazione dal dolore, la salvezza personale.
Nelle religioni monoteistiche la concezione del tempo è lineare. Nell’Ebraismo, anche se si parla di intreccio di linearità e circolarità, il tempo ebraico ha un inizio, uno svolgimento e una fine, non solo nella vita degli uomini. La storia, per gli ebrei, prende avvio dal peccato originale, più che con la Creazione. Il peccato originale, pertanto, è inteso dagli ebrei in senso, se non positivo, quantomeno neutro, ma comunque non negativo, perché necessario per dare inizio all’evolversi dell’umanità. Ma anche se il futuro è ignoto, per gli ebrei, per questo processo si prevede anche una fine: la venuta del Messia segnerà il passaggio dalla dimensione spazio-temporale in cui è immerso questo mondo a una dimensione totalmente altra, ora inimmaginabile, perché al di là di ogni spazio e fuori dal tempo. Ma la catena della storia, cioè del tempo e dello spazio, anche con l’avvento dell’era messianica, finirà. La ciclicità del tempo, nell’Ebraismo, è legata solo alla ciclicità della natura. Che, legata al calendario, fa sì che anch’essa abbia un’influenza importante sulla vita quotidiana di ogni ebreo, fondamentale in un popolo che per millenni non ha avuto una patria fisica. Torna qui l’importanza della dimensione della memoria: il “tempo della vita” di ogni ebreo è perfettamente scandito in ogni sua fase e a ogni livello attraverso continui riferimenti al “tempo della storia” del popolo ebraico, in un intreccio fitto e indissolubile. Per il resto, la Bibbia non ha una cosmologia propria. “In principio Dio creò il cielo e la terra”, queste le parole d’apertura del racconto della creazione in Genesi (Genesi 1:1-26). Ma la Bibbia non dice che Dio distruggerà e ricreerà l’universo. Anche nell’Islam, la concezione del tempo è influenzata da una visione lineare ed escatologica, secondo la quale Dio ha dato un inizio e una fine allo spazio, alla storia e al tempo. Il tempo non è visto come un’infinità di cicli, ma come un percorso che ha fine nel Giorno del Giudizio, dove le azioni degli uomini avranno conseguenze eterne. Pertanto, il tempo nell’Islam procede in avanti, verso un destino ultimo, con un inizio e una fine decisi da Dio.
E giungiamo al Cristianesimo, che, essendo derivato dall’Ebraismo, non può avere una visione del tempo diversa da quello lineare, di un principio verso la fine. Solo così la storia è portatrice di senso, anche se, per Mircea Eliade, grande storico delle religioni romeno, la concezione ciclica sarà poi reintegrata nel Cristianesimo con la visione periodica della ciclicità delle epoche. In realtà, i cicli (feste, memoriali, settimana, anno liturgico) nel Cristianesimo, come nell’Ebraismo, saranno utilizzati solo per ricordare un evento specifico, datosi una volta per tutte, affinché, mediante la riproposizione di un ciclo, la sua memoria sia più facilmente conservata nel tempo, come accade con il sabato ebraico (compimento della creazione) e la domenica cristiana (risurrezione di Cristo). Ma Cristo è morto per la redenzione dell’umanità una sola volta, l’incarnazione è un fatto unico, Cristo è morto per i nostri peccati una sola volta. Il cammino dell’umanità è una linea dritta che va dalla caduta iniziale fino alla redenzione finale. Il fluire della storia è così comandato e orientato da un unico fatto radicalmente singolare. E, di conseguenza, il destino dell’umanità tutta, come il destino particolare a ognuno di noi, si gioca anch’esso una sola volta, una volta per tutte, in un tempo concreto e insostituibile che è quello della storia e della vita. È una concezione lineare del tempo e della storia che troverà il suo culmine in sant’Agostino.
Ci sono stati, sì, tentativi d’inserimento della teoria dei cicli nel Cristianesimo, con teorie astrali. Da Alberto Magno a san Tommaso, a Ruggero Bacone, a Dante, tanti hanno creduto nei cicli della storia, e che essi siano governati dall’influenza degli astri, sia che essa ubbidisca alla volontà di Dio e sia il suo strumento nella storia, o — ipotesi che si impone sempre di più — che la si consideri come una forza immanente al cosmo. È un conflitto che si è prolungato fino al XVII secolo. Gioachino da Fiore divide la storia del mondo in tre grandi epoche, ispirate e dominate successivamente da una diversa persona della Trinità: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. Nella visione dell’abate calabrese, ognuna di queste epoche rivela, nella storia, una nuova dimensione della divinità e, per questo, permette un perfezionamento progressivo dell’umanità che conduce, nell’ultima fase — ispirata dallo Spirito Santo — alla libertà spirituale assoluta. Ma, nei tempi moderni, le teorie cicliche si configureranno sempre più come eretiche e saranno rigettate dalla Chiesa, vedi le teorie di Tycho Brahe, Keplero, Cardano, Giordano Bruno o Campanella, dove l’ideologia ciclica sopravvive con la nuova concezione del progresso lineare professata, per esempio, da un Francesco Bacone o da un Pascal, nonostante certe reazioni contro la concezione lineare e un ritorno d’interesse per la teoria dei cicli. Così vediamo, in economia politica, alla riabilitazione delle nozioni di ciclo, di fluttuazione, di oscillazione periodica; in filosofia il mito dell’eterno ritorno viene di nuovo alla ribalta con Nietzsche; e nella filosofia della storia Oswald Spengler si occupa del problema della periodicità. Quanto abbiamo detto ha sempre a che fare con la fine fisica dell’universo. Per il cattolico, però, ora si pone l’eterno dilemma: perché il meraviglioso creato deve finire? Vediamo.
L’epopea cattolica di Dante finisce con le stelle, dall’inferno, “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, al purgatorio, “puro e disposto a salire le stelle”, al paradiso, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, e le stelle coincidono per Dante con Dio, sono il luminoso equilibrio dove tutto comincia e tutto finisce. Per gli antichi, il cielo e la terra erano la stessa cosa, tutto ciò che accadeva in cielo influiva anche sulla terra e viceversa. Questo è qualcosa che i moderni non riescono più a comprendere. Certo, in Dante i cieli sono Dio, ma, fino a Pascoli, c’è un perfetto equilibrio tra le stelle e l’uomo. Così la luna di Ariosto contiene il senno perduto degli uomini, la luna ha valli e foreste e fiumi più belli di quelli della terra. Anche per l’ateo ma mistico Leopardi la luna, cioè il cielo, e la terra fanno parte di un unico progetto. Leopardi parla con le stelle, con la luna e a loro domanda le ragioni dell’esistere. Forse perché, tornando alle origini, voleva comprendere il senso dell’esistenza. Leopardi è il primo occidentale moderno a tornare alle origini. Leopardi è l’universo che interroga sé stesso, chiede a sé stesso le ragioni della vita. La luna è, sì, il deserto, il mistero, l’eterno, l’incomprensibile movimento di tutte le cose create, ma fa parte di un unico destino. Il fascino e lo splendore della luna e delle stelle sono quelli dell’universo, l’universo leopardiano ha ancora un centro, le architetture cosmiche sono quelle classiche, il cielo stellato leopardiano è ancora quello democratico in cui tutti hanno un ruolo. La luna e le stelle di Leopardi sono quelle galileiane sottoposte a ogni legge fisica e dunque anche alla democrazia del cosmo.
Leopardi è il poeta del villaggio, ed è anche il poeta dell’universo. L’universo è la luna, così distante ma così vicina, compagna silenziosa della nostra solitudine, eterna peregrina che forse il sospirare intende e il nostro patire, e lo scolorar del sembiante, e il perire della terra e il venir meno di ogni amante compagnia. L’universo leopardiano partecipa del nostro dolore e della nostra solitudine, è lo spazio e il tempo infinito ed eterno che è in noi. Solo un poeta moderno come lui poteva superare con un potente balzo della mente la perfezione matematica dello spazio e del tempo e afferrare l’idea del tempo e dello spazio assoluti, e abbandonarsi all’ignoto, all’arcano, sottrarsi alla disperazione della realtà. La luna conduce all’infinito e al nulla. Noi siamo già le stelle, atomi sperduti nello spazio, oppure vagheremo come ombre di mondo in mondo, fuliggine del cosmo, relitti morti che non conosceranno più il dolore, vaporosa caligine, larve, pure fantasime astrali dell’incontaminato nulla.
Il cielo stellato è l’infinito, è l’amore, il desiderio delle estreme arcane lontananze, è la volontà di perdersi negli sterminati abissi del cosmo, dove secondo Seneca riposa la parte migliore di noi, la parte non caduca di noi, è la nostalgia del ritorno alle origini, dove vivono le anime beate, in simbiosi perfetta con il tutto. Indifferenti allo spazio e al tempo, ai ricordi, ai rimorsi, ai rimpianti, le stelle custodiscono il silenzio e il rumore, il clangore della storia, la memoria, i ricordi che ci giungono dopo millenni. Per Leopardi l’universo è eterno, un eterno rinnovarsi. Migliore dell’uomo.
Anche per Seneca l’universo è eterno. Noi guardiamo sempre al cielo come a un mondo d’incontaminata purezza ed è invece la furia degli elementi, il fuoco che brucia e che ritorna, l’immane catastrofe dell’eterno rinascimento. Il cielo, dice Seneca, è il luogo dove si spazia fra le anime beate, dove impariamo a vagare di mondo in mondo, e le orbite delle stelle, e la fuga della luce, e il dipanarsi dei lunghi silenzi. Lì visitiamo città sconosciute, e conosciamo tutti i fenomeni celesti, che sono i nostri sogni della terra, e ogni tanto abbassiamo lo sguardo sino al fondo degli abissi cosmici, e osserviamo la Terra, ed è bello guardare dall’alto tutto ciò che abbiamo lasciato. Solo fra le stelle, così tanto in alto, non abbiamo pensieri bassi o volgari ed è sciocco piangere i nostri congiunti passati a miglior sorte. Godiamo di cose eterne, liberi di vagare per spazi senza confini, né mari interposti ci separano, o l’altitudine dei monti o gole impervie o i bassifondi insidiosi delle Sirti: lì tutto è piano, e noi ci muoviamo con facilità e leggerezza, ci compenetriamo l’un l’altro e ci mescoliamo alle stelle, figli delle stelle.
Tutta la materia che vediamo intorno a noi, le ossa, i muscoli, la pelle che li copre, il volto, le mani servizievoli e tutto il resto del nostro involucro, sono catene e tenebre per l’anima: l’anima ne è oppressa, soffocata, contaminata, allontanata dalla verità che è il suo bene e cacciata nell’errore. Tutta la nostra lotta è contro la pesantezza della carne, perché il suo peso non ci trascini in basso: l’anima si sforza di risalire da dove fu mandata giù. Ci aspettano lì una pace eterna, la visione di una luce limpida e pura, fuori della nostra atmosfera torbida e opaca, e noi lottiamo per scioglierci dei pesi estranei. Perché correre, dunque, al sepolcro dei nostri cari? Qui giacciono solo gli elementi peggiori di loro, le cose a loro più moleste, ossa e ceneri, che facevano parte di loro non più che le vesti e altri indumenti del corpo. Se ne sono fuggiti integralmente, senza lasciar nulla di sé in terra, tutto di loro è andato via; dopo una breve sosta sopra di noi — il tempo di purificarsi e di eliminare tutte le incrostazioni e le lordure della vita mortale —, ascesi in alto spaziano fra le anime beate.
Solo nel cielo, dice ancora Seneca, fra le stelle, ricongiunti con tutto e con tutti, fuori della notte profonda, vediamo che nulla c’è sulla terra di desiderabile, di splendido, di luminoso, ma tutto è greve, bassura, angoscia, solo un barlume della nostra luce. In cielo non c’è il reciproco furore delle armi, né il cozzare di flotta contro flotta, non ci sono né trame o pensieri fratricidi, né strepito di liti nei fori dalla mattina alla sera, fra le stelle non ci sono segreti, ma pensieri trasparenti e cuori aperti, la vita sotto gli occhi di tutti, il panorama di tutti i tempi, passati e futuri. Che cosa sarà mai la storia di un solo secolo, di un pugno di uomini nel più sperduto angolo dell’universo? Dal cielo possiamo contemplare tanti secoli, la concatenazione di tante epoche, la somma degli anni. Da lì è possibile vedere i regni che sorgeranno e cadranno, il crollo delle grandi città, i nuovi movimenti del mare. Se poi può essere di conforto al nostro dolore il destino comune, niente starà fermo nel luogo dove sta, tutte le cose il tempo abbatterà e travolgerà. Esso non si prenderà gioco solo degli uomini – che cos’è, infatti, questa piccola parte di un cieco dominio? -, ma dei luoghi, dei paesi, delle parti dell’universo. Spianerà intere montagne, tutte, e farà emergere altrove nuove regioni; inghiottirà mari, devierà fiumi e, interrompendo le comunicazioni fra i popoli, disgregherà il consorzio del genere umano; altrove farà scomparire città in vaste voragini e le squasserà coi terremoti, emetterà dal profondo esalazioni pestifere, coprirà con le inondazioni ogni centro abitato, sommergerà il mondo uccidendo ogni essere vivente, con vampe di fuoco brucerà e ridurrà in cenere tutte le creature. E quando verrà tempo che l’universo si estinguerà per rinnovarsi, le cose che vediamo si autodistruggeranno, le stelle cozzeranno con le stelle, tutta la materia prenderà fuoco e le varie luci del firmamento divamperanno in un incendio solo. Anche noi, anime beate e partecipi dell’eterno, quando a Dio piacerà di iniziare un nuovo ciclo e sarà tutto in rovina, anche noi allora, torneremo a dissolverci negli elementi primordiali, noi, piccola goccia nel marasma cosmico.
Parole di Seneca in pagine memorabili. Dagli antichi a Leopardi, i cieli sono stati una presenza forse lontana e arcana ma rassicurante. È con i moderni, con Pascoli che l’universo perde il suo centro, e noi viviamo l’angoscia, il tormento, l’inquietudine di sentirci smarriti fra i baratri del cosmo, preda di cataclismi incontrollabili. I cieli adesso sono pieni di bolidi che scorrazzano per baratri sterminati, abissi senza fondo, dove la terra si allontana sempre più e si perde negli spazi senza confini. Ma forse ci sbagliamo anche qui, e quello che sembra caos è ordine, e le stelle sono sempre lì, dove restano i nostri sogni, così lontane e impalpabili, ma parlano con noi da lontano, da lì dove tutto rimane e non muta, dove i tempi remoti si congiungono coi presenti, dove permangono i sovrumani silenzi, gli interminati spazi e la profondissima quiete. E ci parlano con il loro misterioso, arcano, linguaggio.
Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante, afferma Nietzsche. Cioè liberare la parte più autentica di noi, la forza, l’amore che è in noi, lasciarsi andare al caos, al tumulto dei sentimenti, alle emozioni, al puro, incondizionato amore, che non significa vivere nella confusione ma seguire il nostro istinto, per diventare ciò che noi siamo. Ogni tanto mi piace pensare che siano stati questi i primi sentimenti di Dio prima della creazione. E che Dio non si priverà della straordinaria bellezza di ciò che ha creato. Che Egli si è perdutamente innamorato della sua creazione. E noi continueremo a osservare le stelle. E mi piacerà pensare che la vita che nasce dal caos non abbia mai fine ma si congiunga con l’eterno ritorno dell’uguale, nel mistero arcano dello smisurato magma primigenio, il puro caos che dà origine allo spazio e al tempo, alla storia, l’Amore che vince la deriva, la distruzione, l’eterno volgimento, il marasma cosmico.



