9 Novembre 2025

Leone XIV: “La violenza viene vinta dall’amore che sa perdonare”

A cura della Redazione

LE ATTIVITÀ APOSTOLICHE DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Il Santo Padre ha ricevuto ieri mattina in Udienza il Card. Víctor Manuel Fernández, Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede; il Card. Jaime Spengler, O.F.M., Arcivescovo Metropolita di Porto Alegre (Brasile), Presidente del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM); con Mons. José Luis Azuaje Ayala, Arcivescovo Metropolita di Maracaibo (Venezuela), Primo Vice Presidente; S.E. Mons. José Domingo Ulloa Mendieta, O.S.A., Arcivescovo Metropolita di Panamá (Panamá), Secondo Vice Presidente; Mons. Santiago Rodríguez Rodríguez, Vescovo di San Pedro de Macorís (Repubblica Dominicana), Presidente CAE; Mons. Lizardo Estrada Herrera, O.S.A., Vescovo tit. di Ausuccura, Ausiliare di Cuzco (Perù), Segretario Generale; Rev. Eric Iván García, Segretario Generale Aggiunto; Mons. Alejandro Adolfo Wiesse Léon, O.F.M., Vicario Apostolico di Requena (Perù); Mons. Giovanni Cesare Pagazzi, Arcivescovo tit. di Belcastro, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa; con il Rev. Mauro Mantovani, S.D.B., Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana; e con il Rev. Giacomo Cardinali, Vice Prefetto.

Presso l’Augustinianum ha incontrato con i Partecipanti al Capitolo Generale dell’Ordine di Sant’Agostino.

Nel pomeriggio di ieri ha presieduto la veglia di preghiera della Consolazione.

Incontrando i Partecipanti al Capitolo Generale dell’Ordine di Sant’Agostino il Papa ha detto:

Sono felice di essere qui con voi in occasione del vostro Capitolo Generale. Posso dire di sentirmi a casa e di partecipare interiormente anch’io, in spirito di condivisione spirituale, a quanto state vivendo in questi giorni. Ringrazio il Priore Generale che ha terminato il suo servizio e saluto il nuovo Priore appena eletto: per questo compito così impegnativo ci vuole la preghiera di tutti noi, non dimentichiamolo!

Il Capitolo Generale è una preziosa occasione per pregare insieme e riflettere sul dono ricevuto, sull’attualità del carisma e anche sulle sfide e le problematiche che interpellano la comunità. Mentre si portano avanti le diverse attività, celebrare il Capitolo significa mettersi in ascolto dello Spirito, in un certo senso in analogia con quanto diceva il nostro padre Agostino richiamando l’importanza dell’interiorità nel cammino della fede: «Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore» (De vera religione, 39, 72).

D’altra parte, l’interiorità non è una fuga dalle nostre responsabilità personali e comunitarie, dalla missione che il Signore ci ha affidato nella Chiesa e nel mondo, dalle domande e dai problemi urgenti. Si rientra in sé stessi per poi uscire in modo ancora più motivato ed entusiasta nella missione. Rientrare in noi stessi rinnova lo slancio spirituale e pastorale: si ritorna alla sorgente della vita religiosa e della consacrazione, per poter offrire luce a coloro che il Signore pone sul nostro cammino. Si riscopre la relazione con il Signore e con i fratelli della propria famiglia religiosa, perché da questa comunione d’amore possiamo trarre ispirazione e affrontare meglio le questioni della vita comunitaria e le sfide apostoliche.

In tale contesto, dopo un’ampia e condivisa riflessione che avete portato avanti in questi anni, vi state soffermando su alcune tematiche che vorrei brevemente richiamare.

Anzitutto, un tema fondamentale: le vocazioni e la formazione iniziale. Mi piace ricordare quell’esortazione di Sant’Agostino: «Amate ciò che sarete» (Discorso 216, 8). Trovo che sia un’indicazione preziosa, soprattutto per non cadere nell’errore di immaginare la formazione religiosa come un insieme di regole da osservare o di cose da fare o, ancora, come un abito già confezionato da indossare passivamente. Al centro di tutto, invece, c’è l’amore. La vocazione cristiana, e quella religiosa in particolare, nasce solo quando si avverte l’attrazione di qualcosa di grande, di un amore che possa nutrire e saziare il cuore. Perciò la nostra prima preoccupazione dovrebbe essere quella di aiutare, specialmente i giovani, a intravedere la bellezza della chiamata e ad amare ciò che, abbracciando la vocazione, potranno diventare. La vocazione e la formazione non sono realtà prestabilite: sono un’avventura spirituale che coinvolge tutta la storia di una persona, e si tratta anzitutto di un’avventura d’amore con Dio.

L’amore, che, come sappiamo, Agostino ha messo al centro della sua ricerca spirituale, è un criterio fondamentale anche per la dimensione dello studio teologico e della formazione intellettuale. Nella conoscenza di Dio non è mai possibile arrivare a Lui con la nostra sola ragione e con una serie di informazioni teoriche, ma si tratta anzitutto di lasciarsi stupire dalla sua grandezza, di interrogare noi stessi e il senso delle cose che accadono per rintracciarvi le orme del Creatore, e soprattutto di amarlo e di farlo amare. A coloro che studiano, Agostino suggerisce generosità e umiltà, che nascono appunto dall’amore: la generosità di comunicare agli altri le proprie ricerche, perché ciò vada a vantaggio della loro fede; l’umiltà per non cadere nella vanagloria di chi cerca la scienza per sé stessa, sentendosi superiore agli altri per il fatto di possederla.

Al contempo, il dono ineffabile della carità divina è ciò a cui dobbiamo guardare se vogliamo vivere al meglio anche la vita comunitaria e l’attività apostolica, mettendo in comune i nostri beni materiali, come pure quelli umani e spirituali. Ricordiamoci di quanto è efficace ciò che è scritto nella nostra Regola: «Come siete nutriti da una sola dispensa, così vestitevi da un solo guardaroba» (Regola, 30). Restiamo fedeli alla povertà evangelica e facciamo in modo che diventi criterio per vivere tutto ciò che siamo e che abbiamo, compresi i mezzi e le strutture, al servizio della nostra missione apostolica.

Infine, non dimentichiamoci della nostra vocazione missionaria. A partire dalla prima missione nel 1533, gli Agostiniani hanno annunciato il Vangelo in tante parti del mondo con passione e generosità, prendendosi cura delle comunità cristiane locali, dedicandosi all’educazione e all’insegnamento, spendendosi per i poveri e realizzando opere sociali e caritative. Questo spirito missionario non deve spegnersi, perché anche oggi ce n’è molto bisogno. Vi esorto a ravvivarlo, ricordando che la missione evangelizzatrice a cui tutti siamo chiamati esige la testimonianza di una gioia umile e semplice, la disponibilità al servizio, la condivisione della vita del popolo a cui siamo inviati.

Carissimi, vi auguro di proseguire i lavori del Capitolo nella gioia fraterna e con il cuore disposto ad accogliere i suggerimenti dello Spirito. Prego per voi, perché la carità del Signore ispiri i vostri pensieri e le vostre azioni, rendendovi apostoli e testimoni del Vangelo nel mondo. Intercedano la Vergine Maria e Sant’Agostino, e vi accompagni la benedizione apostolica.

Durante la Veglia di Preghiera in occasione del Giubileo della Consolazione il Santo Padre ha detto:

«Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). È questo l’invito del profeta Isaia, che oggi giunge in modo impegnativo anche a noi: ci chiama a condividere la consolazione di Dio con tanti fratelli e sorelle che vivono situazioni di debolezza, di tristezza, di dolore. Per quanti sono nel pianto, nella disperazione, nella malattia e nel lutto risuona chiaro e forte l’annuncio profetico della volontà del Signore di porre termine alla sofferenza e cambiarla in gioia. In questo senso, vorrei ringraziare di nuovo le due persone che hanno dato la loro testimonianza. Si può trasformare tutto il dolore con la grazia di Gesù Cristo. Grazie! Questa Parola compassionevole, fattasi carne in Cristo, è il buon samaritano di cui ci ha parlato il Vangelo: è Lui che lenisce le nostre ferite, è Lui che si prende cura di noi. Nel momento del buio, anche contro ogni evidenza, Dio non ci lascia soli; anzi, proprio in questi frangenti siamo chiamati più che mai a sperare nella sua vicinanza di Salvatore che non abbandona mai.

Cerchiamo chi ci consoli e spesso non lo troviamo. Talvolta ci diventa persino insopportabile la voce di quanti, con sincerità, intendono partecipare al nostro dolore. È vero, ci sono situazioni in cui le parole non servono e diventano quasi superflue. In questi momenti rimangono, forse, solo le lacrime del pianto, se pure queste non si sono esaurite. Papa Francesco ricordava le lacrime di Maria Maddalena, disorientata e sola, presso il sepolcro vuoto di Gesù. «Piange semplicemente – diceva –. Vedete, alle volte nella nostra vita gli occhiali per vedere Gesù sono le lacrime. C’è un momento nella nostra vita in cui solo le lacrime ci preparano a vedere Gesù. E quale è il messaggio di questa donna? “Ho visto il Signore”».

Care sorelle e cari fratelli, le lacrime sono un linguaggio, che esprime sentimenti profondi del cuore ferito. Le lacrime sono un grido muto che implora compassione e conforto. Ma prima ancora sono liberazione e purificazione degli occhi, del sentire, del pensare. Non bisogna vergognarsi di piangere; è un modo per esprimere la nostra tristezza e il bisogno di un mondo nuovo; è un linguaggio che parla della nostra umanità debole e messa alla prova, ma chiamata alla gioia.

Dove c’è il dolore sorge inevitabile l’interrogativo: perché tutto questo male? Da dove proviene? Perché è dovuto capitare proprio a me? Nelle sue Confessioni, Sant’Agostino scrive: «Cercavo l’origine del male … qual è la sua radice, quale il suo seme?… Se Dio che è buono ha creato buone tutte le cose, allora da dove ha origine il male?… Tali erano i pensieri che io manipolavo nel mio misero cuore … Tuttavia, salda e stabile rimaneva nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del suo Cristo, nostro Signore e Salvatore; fede che non intendevo abbandonare, benché su molti punti fosse vaga e fluttuante» (VII, 5).

Il passaggio dalle domande alla fede è quello a cui ci educa la Sacra Scrittura. Vi sono infatti domande che ci ripiegano su noi stessi e ci dividono interiormente e dalla realtà. Vi sono pensieri da cui non può nascere nulla. Se ci isolano e ci disperano, umiliano anche l’intelligenza. Meglio, come nei Salmi, che la domanda sia protesta, lamento, invocazione di quella giustizia e di quella pace che Dio ci ha promesso. Allora gettiamo un ponte verso il cielo, anche quando sembra muto. Nella Chiesa cerchiamo il cielo aperto, che è Gesù, il ponte di Dio verso di noi. Esiste una consolazione che allora ci raggiunge, quando “salda e stabile” rimane quella fede che ci pare “vaga e fluttuante” come una barca nella tempesta.

Dove c’è il male, là dobbiamo ricercare il conforto e la consolazione che lo vincono e non gli danno tregua. Nella Chiesa significa: mai da soli. Poggiare il capo su una spalla che ti consola, che piange con te e ti dà forza, è una medicina di cui nessuno può privarsi perché è il segno dell’amore. Dove profondo è il dolore, ancora più forte dev’essere la speranza che nasce dalla comunione. E questa speranza non delude.

Le testimonianze che abbiamo ascoltato trasmettono questa certezza: che il dolore non deve generare violenza; che la violenza non è l’ultima parola, perché viene vinta dall’amore che sa perdonare. Quale liberazione più grande possiamo sperare di raggiungere, se non quella che proviene dal perdono, che per grazia può aprire il cuore nonostante abbia subito ogni sorta di brutalità? La violenza patita non può essere cancellata, ma il perdono concesso a quanti l’hanno generata è un’anticipazione sulla terra del Regno di Dio, è il frutto della sua azione che pone termine al male e stabilisce la giustizia. La redenzione è misericordia e può rendere migliore il nostro futuro, mentre ancora attendiamo il ritorno del Signore. Lui solo asciugherà ogni lacrima e aprirà il libro della storia consentendoci di leggere le pagine che oggi non possiamo giustificare né comprendere (cfr Ap 5).

Anche a voi, fratelli e sorelle che avete subito l’ingiustizia e la violenza dell’abuso, Maria ripete oggi: “Io sono tua madre”. E il Signore, nel segreto del cuore, vi dice: “Tu sei mio figlio, tu sei mia figlia”. Nessuno può togliere questo dono personale offerto a ciascuno. E la Chiesa, di cui alcuni membri purtroppo vi hanno ferito, oggi si inginocchia insieme a voi davanti alla Madre. Che tutti possiamo imparare da lei a custodire i più piccoli e fragili con tenerezza! Che impariamo ad ascoltare le vostre ferite, a camminare insieme. Che possiamo ricevere da Maria Addolorata la forza di riconoscere che la vita non è definita solo dal male patito, ma dall’amore di Dio che mai ci abbandona e che guida tutta la Chiesa.

Le parole di San Paolo, poi, ci suggeriscono che, quando si riceve consolazione da Dio, allora si diventa capaci di offrire consolazione anche agli altri: «Egli – scrive l’Apostolo – ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,4). I segreti del nostro cuore non sono nascosti a Dio: non dobbiamo impedirgli di consolarci, illudendoci che possiamo contare solo sulle nostre forze.

Sorelle e fratelli, al termine di questa Veglia vi verrà offerto un piccolo dono: l’Agnus Dei. È un segno che potremo portare nelle nostre case per ricordare che il mistero di Gesù, della sua morte e risurrezione è la vittoria del bene sul male. Lui è l’Agnello che dona lo Spirito Santo Consolatore, il quale non ci lascia mai, ci conforta nelle necessità e ci fortifica con la sua grazia (cfr At 15,31).

Quanti amiamo e ci sono stati strappati da sorella morte non vanno perduti e non spariscono nel nulla. La loro vita appartiene al Signore che, come Buon Pastore, li abbraccia e li tiene stretti a sé, e ce li restituirà un giorno perché possiamo godere una felicità eterna e condivisa.

Carissimi, come c’è il dolore personale, così, anche ai nostri giorni, esiste il dolore collettivo di intere popolazioni che, schiacciate dal peso della violenza, della fame e della guerra, implorano pace. È un grido immenso, che impegna noi a pregare e agire, perché cessi ogni violenza e chi soffre possa ritrovare serenità; e impegna prima di tutto Dio, il cui cuore freme di compassione, a venire nel suo Regno. La vera consolazione che dobbiamo essere capaci di trasmettere è quella di mostrare che la pace è possibile, e che germoglia in ognuno di noi se non la soffochiamo. I responsabili delle Nazioni ascoltino in modo particolare il grido di tanti bambini innocenti, per garantire loro un futuro che li protegga e li consoli.

In mezzo a tanta prepotenza, ne siamo certi, Dio non farà mancare cuori e mani che portano aiuto e consolazione, operatori di pace capaci di rincuorare coloro che sono nel dolore e nella tristezza. E insieme, come Gesù ci ha insegnato, invocheremo con più verità: “Venga il tuo Regno!”.

 

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