16 Novembre 2025

Oggi tocca all’Israel-Premier Tech, e domani?

di Angelica La Rosa 

UNA ASSURDA DECISIONE NEL CICLISMO

La decisione di escludere l’Israel-Premier Tech dal Giro dell’Emilia per ragioni di “sicurezza pubblica” non è un problema tecnico o logistico che si risolve con un semplice cambio di calendario: è un atto con implicazioni simboliche e morali che rischia di legittimare – con la scusa della prevenzione – un’ingiustizia assai più profonda, quella della stigmatizzazione collettiva e della discriminazione.

Da tempo la squadra israeliana è oggetto di proteste e contestazioni contro la presenza del nome “Israel” nel contesto sportivo, richiamandola direttamente alle responsabilità del governo israeliano nella guerra di Gaza.

In Italia, il Comune di Bologna – per esempio – aveva chiesto esplicitamente di escludere il team dal Giro in virtù di un presunto “legame” – sociale, politico o culturale – con le “gravi azioni israeliane contro i civili nella Striscia di Gaza”.

Le autorità cittadine hanno sostenuto che “non possiamo accettare una squadra legata a quello stesso governo” in un momento come questo, cercando di spostare la questione dallo sport al contesto politico.

Di fronte a queste pressioni, gli organizzatori della corsa – pur dichiarando la loro contrarietà in ottica sportiva – hanno “ceduto” all’“obbligo di sicurezza” come giustificazione ufficiale per eliminare il rischio di manifestazioni ostili.

Ma valutiamo cosa sta accadendo: non si tratta di evitare incidenti isolati, si tratta di decidere che lo sport non può più essere neutro. Se un team – qualsiasi team – viene escluso preventivamente, perché “legato” a uno Stato che subisce condanne e proteste, siamo ben oltre la gestione dell’ordine pubblico: stiamo normalizzando che lo sport possa subire la punizione collettiva di una nazione, e che gli atleti diventino vittime anticipate di una rabbia politica che – giustamente o meno – appartiene ad altri piani. È una inversione di principio: non è la squadra che provoca la protesta, è la protesta che si impone sulla squadra.

Si sostiene che “la pressione è forte”, che “i circuiti ripetuti rendono facili eventuali blocchi”, che “la sicurezza non può essere garantita”. Ma se accettiamo questo ragionamento, ogni squadra legata a una causa controversa può essere esclusa a monte, perché potenzialmente oggetto di contestazione.

Oggi toccherebbe all’Israel-Premier Tech, domani a chiunque porti un simbolo, uno stemma, un nome ritenuto “politico”. Questa logica distrugge l’autonomia dello sport, che non dovrebbe diventare un’arena dove le idee si cancellano per non disturbare le convenienze.

È significativo che la UCI – l’organo mondiale del ciclismo – abbia dichiarato che lo sport non può essere usato come strumento di sanzione, e che non supporta la rimozione di squadre in base alla loro nazionalità.

Eppure siamo arrivati a un punto in cui un’organizzazione locale può imporsi su quel principio, affermando che l’ordine politico locale ha priorità sulla parità sportiva.

Quando si esclude un team solo perché “c’è rischio di protesta”, si premia in fondo chi protesta con violenza o intimidazione, perché la protesta estremista ottiene il risultato che vuole: fare silenzio, costringere al ritiro. È un ricatto culturale: “o mi escludi o faccio caos”. Cedere significa assolvere la protesta come scelta legittima e affermare che è più importante evitare il confronto che garantire la competizione.

Chi afferma che “non è contro gli atleti, ma contro il governo di Israele” dimentica che lo sport è fatto da individui, non da governi. Gli atleti non scelgono le politiche estere; pagano con la propria esclusione il prezzo di un conflitto in cui non sono parti. È un’ingiustizia che viene mascherata come pragmatismo. In nome della “sicurezza” si condanna uno sprezzante favoritismo alle istanze più rumorose e radicali – e si nega il diritto a partecipare, mentre lo scontro politico imperversa fuori dal circuito.

Se vogliamo davvero affrontare i rischi, la risposta non è escludere preventivamente chi potrebbe essere contestato: è garantire la presenza dello Stato, della polizia e dell’organizzazione a presidiare con fermezza la protesta pacifica, separare gli spazi del confronto e del corteo da quelli della gara, sanzionare chi viola le regole e attacca gli atleti, non chi si limita a portare un nome. Escludere è facile, ma è la resa. È abdicare al dovere dello sport: difendere il diritto al confronto, all’inclusione, alla competizione anche nei momenti più difficili.

Oggi assistiamo a un precedente pericoloso: un’équipe sportiva cancellata non per un fallo tecnico ma per l’opinione che suscita. Domani potrebbe toccare a chiunque, se il nome o la bandiera diventano motivo di rivolta. Se vogliamo un mondo sportivo libero da pregiudizi, non possiamo accettare che l’antisemitismo – o qualsiasi altra forma di odio e discriminazione – trovi compiacenza nella “sicurezza”. Perché non possiamo piegarci all’odio per garantirci la quiete.

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