16 Novembre 2025

Tredicenni islamici si tappano le orecchie alla benedizione

di Angelica La Rosa 

IL CASO DI CEREA

In un’Italia che si trova sempre più spesso a confrontarsi con i temi dell’integrazione, del multiculturalismo e della coesistenza tra fedi e tradizioni diverse, episodi come quello avvenuto a Cerea, in provincia di Verona, assumono una rilevanza che va ben oltre la cronaca locale.

Quattro ragazzi musulmani di tredici anni, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico, hanno scelto di tapparsi le orecchie nel momento in cui il sacerdote impartiva la benedizione alla scuola.

Un gesto che, secondo quanto riferito dai ragazzi stessi, non voleva essere una provocazione né un’offesa, ma il rispetto di un precetto religioso secondo cui non sarebbe loro consentito ascoltare preghiere di altre confessioni.

Tuttavia, al di là delle intenzioni soggettive, ciò che colpisce è il significato oggettivo e simbolico di un atto del genere, compiuto pubblicamente, in un contesto educativo, durante un rito che, per quanto possa non appartenere a tutti, rappresenta un momento significativo per molti.

La benedizione di un luogo scolastico non è una mera formalità religiosa: è un richiamo a valori condivisi, a un’eredità culturale che ha contribuito a costruire l’identità del nostro Paese, dalle sue istituzioni alle sue leggi, dal suo calendario civile alle sue feste pubbliche.

La nostra è una nazione laica che riconosce il valore storico e culturale del cristianesimo, e che da esso ha mutuato concetti come la dignità della persona, la centralità dell’educazione, la solidarietà, il senso della comunità.

È in questo contesto che il gesto dei quattro studenti assume un peso che va oltre la spontaneità adolescenziale: rappresenta, volenti o nolenti, una forma di chiusura, di rifiuto simbolico, di dissociazione da una tradizione che dovrebbe invece costituire la base del vivere insieme.

Nessuno mette in discussione il diritto alla libertà religiosa, garantito dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali; tuttavia, la libertà di professare il proprio culto non può trasformarsi in una pretesa di escludersi o di contrapporsi ai riti e ai simboli della comunità in cui si è inseriti.

Esiste un equilibrio sottile ma necessario tra diritto individuale e dovere collettivo, tra fede personale e rispetto pubblico.

Chi cresce in Italia, chi ne frequenta le scuole, chi parla la nostra lingua e si forma all’interno del nostro sistema educativo, dovrebbe essere aiutato a comprendere che la partecipazione silenziosa, l’ascolto rispettoso, anche in presenza di simboli o parole che non gli appartengono, non equivale a un’adesione religiosa, ma è un atto di civiltà, un gesto di maturità e di apertura.

È questa la sfida dell’integrazione autentica: non l’annullamento delle differenze, ma la loro armonizzazione all’interno di un quadro comune.

Il rischio, altrimenti, è quello di favorire la nascita di enclave culturali impermeabili, in cui i giovani vengono educati più al rifiuto che alla conoscenza dell’altro, più alla separatezza che al dialogo.

In questo senso, il ruolo della scuola è cruciale e non può limitarsi a registrare i comportamenti degli alunni con distacco o a derubricare tutto a “bravate adolescenziali”.

Al contrario, la scuola deve essere luogo di formazione integrale, di educazione civica, di trasmissione del patrimonio culturale e spirituale della nazione.

Il gesto dei ragazzi dovrebbe aprire una riflessione seria, non soltanto sull’educazione religiosa, ma anche sul modo in cui viene trasmessa l’identità italiana nelle aule scolastiche.

Che senso ha parlare di rispetto, se non si è più in grado di trasmettere l’idea di cosa ci sia da rispettare? Che valore può avere la tolleranza, se viene interpretata sempre come concessione all’altro, mai come richiesta di reciprocità?

In un’epoca in cui troppo spesso la laicità viene equivocata come neutralità o come rinuncia alle proprie radici, è necessario tornare a riaffermare, con chiarezza e fermezza, che l’Italia ha una cultura, una storia, una tradizione religiosa che meritano di essere conosciute, comprese, rispettate.

E questo rispetto deve essere richiesto a tutti, italiani e non, credenti e non credenti, perché solo su una base di identità condivisa è possibile costruire una società davvero inclusiva.

Non si tratta di pretendere conversioni, ma di chiedere coerenza: chi chiede ospitalità, chi chiede cittadinanza, chi chiede diritti, deve anche essere disposto ad accettare i doveri che derivano dalla convivenza.

Tra questi doveri c’è anche quello di non rifiutare, in modo plateale e pubblico, i simboli culturali di un popolo che ti ha accolto.

Il gesto dei ragazzi, anche se compiuto in buona fede, ha suscitato reazioni forti non perché la società italiana sia intollerante, ma perché da troppo tempo si ha la sensazione che la tolleranza venga invocata soltanto in un senso: per chiedere comprensione, mai per offrirla.

È ora di superare questa asimmetria e di ristabilire un principio fondamentale: il rispetto non è mai a senso unico.

La benedizione in una scuola italiana è un atto che non impone nulla a nessuno, ma chiede solo un momento di silenzio e di ascolto. Tappare le orecchie non è un gesto di fede, è una dichiarazione di distanza.

E se a tredici anni si è già così lontani, la responsabilità non è solo dei ragazzi, ma degli adulti – genitori, educatori, istituzioni – che non hanno saputo o voluto insegnare il valore del rispetto reciproco, quello vero.

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