16 Novembre 2025

La “giustizia” spettacolo…

di Matteo Orlando 

QUALCHE RIFLESSIONE SUL SENSAZIONALISMO GIUDIZIARIO

Cogne, Avetrana, Garlasco, Brembate di Sopra: piccoli centri italiani diventati, loro malgrado, luoghi simbolo di una deriva mediatica che ha trasformato il dolore in spettacolo e la tragedia in intrattenimento.

È il fenomeno del sensazionalismo giudiziario (ne scrive benissimo QUI l’avvocato Dalila Di Dio), un circo che, a ogni nuovo delitto, rialza il tendone per offrire al pubblico la solita rappresentazione di morbosità, sospetti, interviste e congetture, come se la vita e la morte di persone reali potessero essere ridotte a una fiction di bassa lega.

La cronaca giudiziaria, quella vera, quella che dovrebbe raccontare i fatti, stimolare la riflessione, aiutare la comprensione della verità, si dissolve in un chiacchiericcio continuo, popolato da esperti improvvisati, opinionisti di professione e personaggi in cerca d’autore, pronti a dire la loro su ogni dettaglio, su ogni sguardo, su ogni foto rubata.

E così le vittime scompaiono, diventano sfondo, nomi sbiaditi di un racconto che ormai ruota tutto intorno ai presunti colpevoli, ai loro avvocati, ai pubblici ministeri e ai parenti convocati in diretta come fossero attori di un reality.

Le redazioni, i programmi televisivi, i social network si trasformano in tribunali paralleli dove la giustizia non è più un principio, ma un pretesto per fare ascolti, per riempire palinsesti, per saziare la fame di curiosità di un pubblico assuefatto al dolore altrui.

È difficile stabilire dove inizi questo cortocircuito: se dalla sete di notizie del pubblico o dalla macchina mediatica che, da decenni, alimenta un voyeurismo sempre più spinto. Forse l’una cosa ha alimentato l’altra, in un meccanismo perverso che si autoalimenta.

L’Italia, complice anche la scarsa tutela della riservatezza negli atti giudiziari, è diventata terreno fertile per questa degenerazione: verbali, perizie, intercettazioni finiscono facilmente nelle mani di giornali e talk show, che li trasformano in materiale di consumo, commentato e manipolato da chi non ha le competenze per farlo.

Tutto diventa opinione, tutto è spettacolo, anche la sofferenza. E intanto i confini tra verità e finzione si assottigliano, fino a scomparire del tutto.

Non si salva quasi nessuno: neppure parte del mondo giudiziario, che a volte si presta al gioco della notorietà. Pubblici ministeri che rilasciano dichiarazioni come star del cinema, avvocati che inseguono i riflettori, consulenti tecnici che si trasformano in opinionisti permanenti.

Quando la giustizia diventa un palcoscenico, la verità si riduce a sceneggiatura. E mentre tutti parlano, analizzano, interpretano, giudicano, si perde il senso profondo della tragedia: una vita spezzata, un dolore irreparabile, un mistero che meriterebbe silenzio, rispetto, compostezza.

Il risultato è devastante: una società che si nutre di morbosità e una giustizia che viene processata dai media prima ancora che nei tribunali. Il presunto colpevole è già condannato all’indice dell’opinione pubblica, la vittima è dimenticata, ridotta a simbolo, strumento, nome buono solo per i titoli.

E in questo spettacolo indecoroso, a uscire sconfitta non è solo la dignità delle persone coinvolte, ma l’idea stessa di giustizia, privata del suo carattere sacro e trasformata in argomento da bar.

La spettacolarizzazione del dolore non illumina la verità: la offusca, la deforma, la svilisce. E forse il primo passo per tornare a una società più civile sarebbe proprio quello di spegnere i riflettori, lasciare che la cronaca torni a essere racconto e non intrattenimento, e che la giustizia torni ad appartenere ai tribunali, non ai talk show.

 

Foto di Venita Oberholster da Pixabay

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