India, i “senza casta” convertiti al cristianesimo perdono ogni diritto…

Normalmente  la nostra attenzione ecclesiale è attratta da ciò che accade intorno a noi e difficilmente riusciamo a volgere lo sguardo lontano.

In questi giorni, durante l’annuale meeting “All Indian Catholic Union” (AICU), che si è tenuto in modalità telematica considerata l’emergenza Coronavirus, la Catholic Bishops’ Conference of India (che è l’associazione permanente dei vescovi cattolici dell’India fondata nel 1944) si è  espressa in merito a tematiche legate alla povertà ed all’aspetto ecologico, problemi che in un Paese come l’India si collocano ad un livello prioritario e che hanno poco a che fare con le istanze radical chic dei nostri “gretini europei”.

Se consideriamo che l’India conta una popolazione di oltre 1 miliardo e 350 milioni di abitanti, possiamo comprenderne la portata.

Ci preme sottolineare che la religione cristiana in India (la terza professata dopo l’induismo e l’islamismo) conta circa 28 milioni di fedeli, che corrisponde a circa il 2.30% della popolazione totale, dei quali circa 17 milioni sono cattolici, divisi tra fedeli di rito siro-malabarese e siro-malankarese. 

Ebbene questa “minoranza cristiana” non ha vita facile in questo immenso Paese, soprattutto in determinate aree, dove viene discriminata e perseguitata con vessazioni di ogni tipo, dal saccheggio, alla persecuzione, agli stupri, agli omicidi.

Potrebbe stupire ad una prima lettura degli interventi il fatto che anche in questa occasione i Vescovi si siano espressi per l’ennesima volta su temi come inclusione e dialogo. Se riflettiamo però sulla grande opera che la Chiesa in India sta portando avanti, possiamo comprendere che il significato di queste riflessioni appare ben diverso rispetto a quello che, di primo acchito, saremmo portati ad attribuire.

Consideriamo che le chiese cristiane locali gestiscono migliaia di scuole di ogni ordine e grado e di istituzioni ospedaliere, apportando un contributo significativo allo sviluppo del Paese.

Proviamo solamente a pensare a cosa sono disposti a rinunciare questi nostri fratelli per fare apostolato nel nome di Gesù.

Purtroppo, fatta eccezione per la questione dei dalit cristiani (si tratta dei fuori-casta, o «intoccabili», ma la traduzione più appropriata è «oppressi»), rammarica osservare una Chiesa spesso silente sui temi della persecuzione, più attenta a chi non condivide la nostra fede rispetto a chi è “più vicino” a noi, seppur geograficamente distante. Nell’ambito dell’AICU, comunque, la questione centrale emersa per la Chiesa indiana è stata quella delle quote riservate ai dalit. James Elavunkal, presidente dell’Associazione per i dalit del Kerala, ha sostenuto in questo senso che i “senza casta” convertiti al cristianesimo perdono in modo automatico ogni diritto ai benefici delle quote. «È un’ingiustizia sociale contro i nostri diritti costituzionali», che non merita di essere protratta nel tempo a danno di persone estremamente vulnerabili e con pochi mezzi di sussistenza (cit. in Rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza, L’Osservatore Romano, 23 agosto 2020, p. 6).

 

Gian Piero Bonfanti

 

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