“I miei occhi si aprirono e il dolore mi restituì la fede”

Di Benedetta De Vito

Da quando ero ragazza e fino a sempre, poiché lo scrivere d’oggi, e le scrittrici soprattutto, mi sono sempre parse – a parte qualche eccezione – senza sugo e incapaci di ricamar con le parole il profumo del pane, di far brillare al sole l’erba appena tagliata, di raccontar lo sguardo che rivela il cuore, mi sono voltata indietro, cercando nello ieri ciò che all’oggi manca. Tra l’Ottocento e il secolo seguente ne ho trovate, eccome, a mazzi, di scrittrici che sapevano usare penna e calamaio, senza dimenticare un sol momento che non le parole, ma la vita dovevano trasporre sulla carta. E ogni scoperta, per me, una gioia, come ritrovare una sorella dopo distanze siderali. Molti gli amori miei in forma di scrittura. Prima tra tutte, Dolores Prato, della quale parlerò, ma più avanti, lasciando la ciliegina per il dopo e prima la fetta di torta. E oggi vorrei risollevare dall’ingiusta polvere che la ricopre la memoria di Ada Negri, poetessa lucente, scrittrice viva, notista palpitante, famosissima ai suoi tempi, nei primi decenni del Novecento e della quale, nel silenzio, quest’anno si è celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita. Era nota anche a me, bambina, Ada Negri, nelle sue poesie che ascoltavo, all’Istituto Mater Dei, dal fiato materno della maestra Poesio, poesia lei pure al ricordo mio. Ada, che pregava in poesia il Signore, e che forse anche per questa “colpa”, in questo mondo scristianizzato e a gambe in su, è stata sepolta dall’oblio…

Era nata, Ada Negri nel 1870 a Lodi. Orfana di padre, visse nella portineria di una bella casa signorile, dove sua nonna teneva la guardiola. Giocava in giardino, correndo a rompicollo con le signorine, ma, alla chiamata della nonna, doveva a freccia aprir i cancelli per la vettura dei signori di casa… Ada studiò, divenne maestra a Motta Visconti. Scrisse la sua prima poesia “La nenia materna” che è dolorosa nostalgia del paradiso perduto: l’abbraccio materno. “Fra le tue braccia, come bimba stanca, addormentarmi ancora”, scrive. Ed è il nodo, questo, che torna e ritorna, in altalena, nei suoi versi e nelle novelle e che la fa vicina al divino, in preghiera, perché la  conversione è niente altro che ritorno all’abbraccio tenero del Signore, nell’umiltà nuda di un bambino. Ecco legato un fiocco al cuore ardente di Ada. Tanta strada fatta, piena di gloria e di premi, ricca di incontri alati e di promesse e parole, le lasciava la bocca amara e il vuoto. Cercava la verità, fin da bambina, e la ritrovò al capo primo della sua esistenza. ”La nenia materna” le valse la prima pagina del Corriere della Sera e la fama. Fama guadagnata anche da poesie come “La campanella”, che vi consiglio di leggere ad alta voce, nel silenzio di una stanza, in solitudine leggera.

Da maestrina quasi coetanea dei suoi allievi, Ada Negri divenne gloria italiana e quasi vinse il Nobel che andò invece, come si sa, a Grazia Deledda, scrittrice sarda, anzi nuorese, che visse a Roma , lasciando penna, anima e cuore nella sua isola incantata che è anche un poco mia. Ada visse, si innamorò, si sposò, ebbe una figliola, una nipote e girò case e città, fu famosa e, come racconta, seppe quanto sa di sale l’esserlo, perché perse quanto di lei era “gioiosamente spontaneo e la libertà”. Ma quando le accadde, gioì, diventando un’altra. Un’altra che però era racchiusa nella buccia che tutte le Ade custodiva. Nel vivere ebbe anche  tanti, tutti i disincanti. Un fidanzato che l’abbandonò, piccoli tradimenti, dolori. E fu il dolore, la Croce, che la riportò alla Fede.

Certo, certo, per carità, già sento tutto un mormorio di protesta, Ada fu femminista, amica di femministe, fu anche socialista. Certo, per carità, ma anche questa parte della sua vita era nella volontà del Signore che la faceva girare in lungo e in largo per poi richiamarla  a sé. Come infatti fu. Scriveva San Gaspare Bertoni: “Un poco su, un poco giù: una dritta, una storta, si va avanti barcollando sulle orme di Colui che ci precede con la sua Croce”. Ecco il sugo della chiamata che Ada racconta così: «Quando ero giovane non praticavo la Fede, ma sentivo la grandezza del Cristo. Non conoscevo la bellezza intatta del Dogma cattolico, non riuscivo a penetrarlo. Poi i miei occhi si aprirono e il dolore mi restituì la fede». Ed ora è testimone della fede.

Soprattutto Ada, nella sua vita, scrisse. Scrisse poesie, bozzetti, racconti. Vicina al cuore e grande nell’arte della scrittura perché ogni parola, nomi, aggettivi, verbi riescono in bell’ordine a incoronar la vita, a farcela sentire addosso profumata e a volte triste. E a me, più che le poesie (pur belle e alcune splendide) piacciono le sue novelle. Non tutte le ho lette, ancora, ma sono sulla buona strada. La raccolta “Finestre alte” l’ho divorata in poche ore un pomeriggio. E di tutte le storie, la più bella è la penultima che è il fresco ricordo di lei, bambina, in chiesa; prima, il giorno di Natale, davanti al Bambinello, e poco dopo inginocchiata di fronte al Cristo in Croce, la settimana di Pasqua. Il bimbo, divenuto uomo fatto e morto per noi, la lasciava sgomenta. Un mistero, anche per me, da bimba. Ora ho cominciato “Sorelle”, che inizia con il racconto “La cacciatora” dove la Negri ci immerge nella vita sua, libera, scalza, in turbine di vento, di maestrina a Motta Visconti, sul greto del Ticino. Lei e le sue amiche, alcune maestre altre merciaie e panettiere, a mangiar salacche e castagne nella panetteria di Chiarascura, a prendere il tè dalla misteriosa cacciatora, in un’Italia silvestre, profumata di robinie, dovei viottoli di campagna sono bianchi e “di latte”, dove nel bosco si nasconde un misterioso maestro che dirige il frullar di ali, il cinguettare dei volatili, le corse a guizzo degli scoiattoli. Un’Italia all’aria aperta, altroché il lugubre lockdown in cui siamo ora caduti come in un inferno. Per scaricare le novelle di Ada Negri, visitate il sito che porta il suo nome e da lì passate a Liber Liber, dove avrete solo l’imbarazzo della scelta.

 

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