Mafia, l’agente di scorta di Falcone: “a Capaci dovevo esserci anch’io”

LUCIANO TIRINDELLI: “QUEL 23 MAGGIO DEL 1992 AVREI DOVUTO ESSERCI ANCH’IO. MI SONO SALVATO PERCHÉ C’È STATO UN CAMBIO DI TURNO CON ANTONIO MONTINARO, CHE HA PERSO LA VITA NELL’ATTENTATO DELLO SVINCOLO DI CAPACI”.

Di Matteo Orlando

“Quel giorno del 23 maggio 1992 con Giovanni Falcone avrei dovuto esserci anch’io. Mi sono salvato perché c’è stato un cambio di turno con Antonio Montinaro, che ha perso la vita nell’attentato dello svincolo di Capaci”.

A dirlo a Informazione Cattolica è il poliziotto, oggi in quiescenza, Luciano Tirindelli che faceva parte della scorta del famoso giudice Giovanni Falcone.

“Ci incrociammo mentre io smontavo dal servizio quel sabato verso le due del pomeriggio. Lo abbracciai e gli dissi: ci vediamo lunedì. Ma così non è stato. Lui mi ha regalato questi 28 anni di vita. Ogni giorno è nei miei ricordi assieme a Rocco Dicillo e Vito Schifani, gli altri colleghi poliziotti vittime della strage di Capaci, dei fratelli, più che dei colleghi di lavoro, dei compagni di vita”.

Luciano Tirindelli faceva parte della Quarto Savona 15, così era chiamata la scorta assegnata al giudice Giovanni Falcone e alla moglie Francesca Morvillo (anche lei morta nell’attentato).

Tirindelli lavorava in una piccola radio siciliana. “Una sera, mentre ero in onda, ho sentito una notizia. C’era stato un attentato. Era l’attentato al giudice Carlo Palermo. Ero in onda, ho chiuso e ho voluto vedere con i miei occhi. Era la prima volta che sentivo questa parola: attentato. Lì ho avuto la percezione della ferocia di questi personaggi, di questi mafiosi. In quella strada provinciale non c’erano più le due corsie. Fra le due corsie, nel punto in cui è avvenuto questo fallito attentato con una macchina piena d’esplosivo non c’era più la strada, ma il giudice si era salvato. Si era salvato perché era stato superato proprio in quella curva da una macchina civile con a bordo due genitori e un bimbo piccolo di due anni. Questo bambino è stato scaraventato a 200 metri su un balcone. Di questo bimbo è rimasta solo una chiazza di sangue su un balcone di una casa al secondo piano. Lì è scattato qualcosa in me. Lì ho capito cosa dovevo fare. Probabilmente ho deciso quello che già avevo in mente di fare nella mia vita. Questa mia convinzione è diventata realtà quando, il 29 luglio 1985, sono andato a fare la scuola di Polizia a Reggio Emilia”.

A Reggio Emilia Tirindelli lesse un avviso su una bacheca: “Si cercano uomini da inviare a Palermo per il primo maxi processo”. Così “ho chiesto il trasferimento alla squadra mobile e sono stato accontentato. Il dirigente era Arnaldo La Barbera, un bravo poliziotto, di poche parole ma tanti fatti. ‘Lei va alla scorta di Falcone’, mi disse. E’ stato un periodo fantastico. Avevamo la consapevolezza di essere una scorta speciale, che stava proteggendo il più grande magistrato d’Italia e forse del mondo. La strage di Capaci rimarrà un momento indelebile per chi ha a cuore il Paese e l’affermazione della legalità”.

Giovanni Falcone a Palermo non riusciva più a essere sereno così aveva accettato l’invito del Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli che lo aveva chiamato presso il Ministero a lavorare “perché proprio dentro il Ministero c’era un posto dedicato ai magistrati. Falcone aveva accetta positivamente l’invito ed era andato a Roma, a lavorare. Partiva il lunedì da Palermo per poi fare rientro nella sua Palermo il sabato. Noi lavoravamo come scorta di Falcone quando tornava a Palermo e poi quando Falcone ripartiva per Roma. Nel resto dei giorni lavoravamo nelle varie sezioni della squadra mobile. Però capite bene che in questo modo si lavorava ininterrottamente dal lunedì alla domenica, senza riposare. Quindi Giuseppe Sammarco, il capo scorta, cercava delle soluzioni per riuscire ad ottenere un giorno di riposo a turno per ciascuno di noi. Così avvenne anche in quei giorni. Quel venerdì 22 maggio io avevo chiesto un giorno di riposo per andare a trovare i miei nonni in provincia di Trapani. Il giorno seguente ero andato in segreteria per avere la conferma del servizio di sabato 23, dalle 14 alle 20. Ma non era stato confermato. A mia insaputa, il giorno prima il mio collega Antonio Montinaro aveva già chiamato l’ufficio per chiedere quel turno di lavoro. Appena sposato con due bambini piccoli, era stato accontentato per avere qualcosa in più come straordinario. Quindi hanno spostato il mio turno al sabato mattina. Alle 14 avevo finito il mio servizio. Ero andato alla squadra mobile dove avevo incontro Antonio che mi aveva abbracciato e mi aveva spiegato i motivi economici del cambio turno. Non lo sapevo ancora ma è stata l’ultima volta che l’ho visto da vivo. L’avevo salutato ed ero andato a casa”.

Poi quel pomeriggio c’è stata la strage e i misteri connessi all’attentato. “Io posso dire che da 28 anni assisto a un vergognoso e assordante silenzio da parte di chi aveva il dovere di combattere o di farci conoscere quella verità di cui ancora siamo orfani. Falcone non è una statua… Falcone è la persona alla quale dobbiamo quel poco di coscienza antimafia che c’è in Italia. Lui ha spalancato gli occhi degli italiani su un fenomeno con il quale convivevamo da decenni senza capire di cosa si trattasse. C’erano magistrati che facevano anche fatica a riconoscere Cosa Nostra. Nel corso degli anni quegli occhi si sono spesso richiusi. Io credo che abbiamo un dovere nei confronti di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei colleghi della scorta: il dovere di non arrenderci a uno sterile esercizio retorico della memoria e di completare, o tentare di completare, quel percorso di verità che è stato attivato già da tempo, da anni, un percorso di verità che hanno avviato col loro sacrificio”.

Trevigiano di nascita, siciliano di crescita, 57 anni, Tirindelli ha fondato l’associazione “Scorta Falcone Qs 15”, gira le scuole di tutta Italia per raccontare ai ragazzi quei giorni bui.

 

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