Una giornata napoletana di Giacomo Leopardi

IL 14 GIUGNO DEL 1837 MORIVA IL GRANDE POETA DI RECANATI

Di Francesco Bellanti

Ti sei levato presto oggi, Giacomì, è appena mezzogiorno, sei andato a dormire presto, erano le cinque del mattino. Di solito tu ti alzi alle due o alle tre del pomeriggio, fai una colazione-pranzo-cena e poi te ne vai per la città. Che facciamo adesso? Facciamo lo stesso giro? Va bene. Fai contento ora Totonno Ranieri tuo e Paolina sua sorella, ti bevi la broda misteriosa che detesti, è la causa dei tuoi malanni, lo dici sempre, però non ti cambi d’abito, vinci sempre tu. Fatto. Scendiamo. Scendi dal secondo piano del tuo appartamentino in Vico Pero 2, lasci i colori arcobaleno, e il giallo, e il turchino e il verde-azzurro delle pareti, guardi distrattamente gli orti e i campi intorno a via Nuova Capodimonte, e t’avvii per la sterminata città. Sì, ti seguo, niente paura, tu davanti e io dietro. Eh sì, diciamolo pure al mondo che tu odi la campagna, quella incantevole dei tuoi idilli, che tu hai meravigliosamente cantato. Ti attira la città, Giacomino, i bistrot, i caffè, le vie, i vicoli, tu ami Napoli, la città-calderone, viscerale, trasgressiva, pantagruelica, teatrale, è la tua Manhattan. Sì, lo so, hai la tisi, hai gravi problemi di vista, hai allucinazioni, però ti attrae il rumore, il folclore della grande città. E allora cammina, cammina grande poeta, l’aria è serena, tiepida, è il maggio odoroso, cammina col tuo soprabito verde e il bastone, sempre curvo ma sicuro, è tua la città, tue sono le vie strette ma fedeli, i vicoli rassicuranti, anche se popolati da “Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti, degnissimi di spagnuoli e forche”, eh Giacomì? Il popolino dei vicoli ti snobba, e fa niente, conte Leopardi, anche a Recanati natio borgo selvaggio ti snobbava, vivevi “intra una gente zotica, vil, cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo son dottrina e saper”. La plebaglia napoletana, anche qui, ti prende in giro, ma tu te la prendi solo con gli intellettuali che ti odiano, soffrono la tua grandezza, è un circolo chiuso, Giacomì, è na camorra, ti emarginano, ottusi, non sopportano il tuo genio.

Eh sì, tu sei schivo e solitario e loro pensano che sei altezzoso e superbo, è tutta invidia, caro poeta, invidia del tuo immenso talento nascosto in un aspetto meschino, in questa enorme testa che il tuo miserabile corpo porta a spasso per la città. Temono di confrontarsi con te, tu sei troppo grande, immenso per loro. Ne “I nuovi credenti” li hai presi in giro, questi progressisti troppo sciocchi per essere infelici, questi stolti ottimisti di cattolici, i nuovi spiritualisti che dissertano dei problemi del mondo e si compiacciono di sé e delle loro banali idee sorseggiando una cioccolata.

Meglio i lazzaroni dei vicoli, ti toccano la gobba, porta fortuna, ti chiedono i numeri del lotto, glieli dai, ci provi pure tu, ma non sei bravo come a scrivere versi, perdi, ma che frega, ci sei abituato, è una cara abitudine. Ma ecco, siamo già arrivati al Pallonetto di Santa Lucia, ti immergi nel dedalo di vie e di cortili e vicoli tra la folla anonima. Sì, ti seguo. Tu vai, vai per il tuo tempo, vai per i tuoi spazi, il clima è dolce, e tu ami la grande capitale europea. Andiamo, andiamo, arriviamo al Caffè Due Sicilie, assaporiamo un sorbetto, va, è l’una, le due, chissà, tanto tu non hai orari. Ti siedi. Ecco, è la solita musica, “o ranavuottolo” ti chiamano, seduto dietro un tavolino del Caffè Due Sicilie sembri davvero un ranocchio, rannicchiato su una sedia.

Il Caffè Due Sicilie di Largo Carità – peccato che non conoscerai mai l’altra Sicilia – è il tuo regno ma anche la tua tomba, goloso come sei di caffè, granite, gelati, babà. Da don Vito Pinto ti aspettano i tarallini zuccherati, o, come li chiami tu, i confetti cannellini e altre prelibatezze. Il sagace don Vito diventerà nobile per questa arte sublime del gelato, perché, divenuto ricco, comprerà una baronia e diverrà barone, i Borbone apprezzano tanto i sorbetti così tanto che concedono titoli nobiliari ai più abili gelatieri. Che ha fatto don Vito, Giacomì? Ha preso la Bottega del Caffè – così era scritto nella vecchia insegna del locale, di memoria settecentesca – e ha inventato una specialità originale e sublime che solo lui produce nei suoi laboratori: un sorbetto che reca in sé il delizioso sapore della crema pasticciera (“quella grand’arte onde barone è Vito”, lo immortalerai in un tuo poemetto). Eh, le raccomandazioni del medico o del tuo amico Totonno Ranieri! Che vuoi che sia una libbra abbondante di confetti do zi Vito barone che prende per la gola i poeti? Sono buoni, eh? Ora andiamo, dai, una puntatina la pasticceria Pintauro in via Santa Brigida la merita. Ecco, siamo arrivati, entri con gli occhi umidi, avidi, ti siedi, o cammarieri non ti lascia parlare, ti porta subito un piatto di sfogliatelle ricce e frolle e perfino babà. Ne sgranocchi, divori una mezza dozzina, può bastare.

È passata mezzora, Giacomì, alziamoci, non vogliamo fare una visitina all’altra tua gelateria preferita, il Caffè Angioli di Via Toledo? Ti aspetta una cara abitudine, ordinare tre grossi gelati per volta e quando il cameriere te li porta, gli dici di metterli l’uno sull’altro, sono giganteschi al tuo confronto, visto che sei mingherlino e malaticcio. Ecco, siamo arrivati, ti siedi…

Va bene così, dai, alzati, è già passato un quarto d’ora, non è ancora finito l’itinerario napoletano della gola. Ora andiamo, fermiamoci all’angolo di via Toledo di fronte a via San Giacomo, ecco il Caffè Trinacria, un altro caffè ci sta, sommerso da una montagna di zucchero. Ma ora dobbiamo andare tra via Toledo e i Quartieri Spagnoli, e girare per Spaccanapoli, in via Domenico Capitelli 14, all’angolo con via Cisterna dell’Olio, ti aspetta quel taccagno di Starita, il tuo editore, ti ha pubblicato i Canti, le Operette Morali, ma non vuole sgancià manco un ducato, il miserabile, il “pidocchioso libraio, il quale… sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta, di caratteri e di ogni cosa”.

Oh, scusa, m’aggia sbagliate, mo paga o fetente miserabile libraio, sì. Però o fetente ha fatto veramente una infame edizione, e quando uno non fa un lavoro fatto bene, si sa, prima o poi è destinato a chiudere. E infatti chiuderà. Al suo posto venderanno panini con la mozzarella. Sì, ora possiamo uscire, hai qualche soldo in più in tasca. Scendiamo, andiamo a vedere il mare lungo via Caracciolo e andiamo a cercare il posto dove faranno la tua tomba sopra piazza Sannazaro…ecco, siamo arrivati, sì, è nu bello posto, è vicino a quella di Virgilio. Malo sai anche tu che qui non ci saranno mai le tue ossa. Fa niente, tanto che te frega se le tue ossa saranno qui o in una fossa comune di morti per colera?

Tu sei il grande poeta, tu sei il genio, tu sei il Re di Napoli, o forse no, forse un Viceré ma sempre Re. No, a Mergellina, ai banchi di pesce questa sera no. Perciò entriamo nella Biblioteca Nazionale, dentro Palazzo Reale: qui conserveranno i tuoi scritti, qui metteranno la maggior parte delle tue opere originali, scritte di persona da te, e moltissime tue lettere. Sì, è un posto bellissimo, queste sale sono meravigliose, c’è il silenzio altissimo dei libri, vedo però nella tua mente straordinaria affollarsi pensieri, voci, immagini, la tua immortalità. Ora usciamo. Si sta facendo sera. Sì, lo so, questa sera non andrai in piazza del Mercatello, dal marchese Basilio Puoti, accademico della Crusca e compilatore anche di un bellissimo Vocabolario domestico napoletano e toscano, ci sei stato ieri, e ieri ti sei divertito ad ascoltare colui che tramanderà al mondo la tua grandezza, quel giovanotto di 19 anni, come si chiama?, ah sì, Francesco De Sanctis. Ricordi? Hai parlato con lui ieri sera per mezzora, gli hai detto anche che onde con l’infinito si può usare. Questa non è sera di teatro e di taverne, né hai impegni di lupanari. E allora concludiamo la giornata andando a magnà dal grande chef Pasquale Ignarra, “patriota e per giunta finissimo cuoco”, lasciamo perdere sti caffè e bistrot, lui ha la lista delle tue 49 pietanze preferite, questa sera abbiamo i maccheroni, anzi i pasticcini di maccheroni e maccheroncini di grasso e di magro, ma dove la metti tutta sta roba, Giacomì? Oh che bella cosa, don Pasquale te fa assaggià pure la pizza, a pizza senza pummarola ‘ncoppa. Te sfoghi, Giacomì, lo so, tu odi tutte le minestre e i brodi caldi che te vuole fa bere Paolina, sorella di Totonno, mica la tua. Il brodo! Il brodo primordiale della vita e della morte, della tua morte, che s’avvicina. Siamo vicini alla fatale sera del 14 giugno del 1837, manca un annetto, quando morirai felice affogato nel cibo di Napoli, per una tremenda indigestione causata da un’abbuffata di un chilo e mezzo di confetti cannellini di Sulmona consumati la mattina tardi, a cui si aggiunsero una cioccolata, poi verso le 17 una tazza di brodo caldo (forse ti dimenticherai che ti fa male la minestra), una coppa di granita al limone ghiacciata, se non, come dirà un’altra leggenda, una pantagruelica mangiata di pastarelle alla panna avariate. Ah, non è così? E va bene, la racconteremo meglio un’altra volta la storia della tua morte, morte misteriosa e strana, avvolta dal mistero, contrappasso infernale di una vita dolorosa sì ma semplice, chiara, luminosa e piena di grazia, del più grande poeta romantico europeo. Ti lascio adesso, Giacomì, non sono più all’altezza, vai a completare la Ginestra, a scrivere Il tramonto della luna.

 

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