“Perdono” o “amnistia” per Nelson Mandela? Continua l’apologia, questa volta destinata a bambini e ragazzi, di un falso mito del Novecento

LA BIBLIOTECA POLITICAMENTE CORRETTA PER BAMBINI E RAGAZZI SI ARRICCHISCE DI “NELSON MANDELA. IL PERDONO È UN’ARMA POTENTE”, UN LIBRETTO APOLOGETICO SCRITTO DA GIANLUCA GRASSI E ILLUSTRATO DA FILIPPO BARBACINI. CON UNA PREFAZIONE DEL CARDINALE DI BOLOGNA MATTEO ZUPPI CHE, FORSE, AVREBBE FATTO MEGLIO A DOCUMENTARSI MEGLIO SUL LATO OSCURO DEL “MADIBA”, EVITANDO DI FAR SOVRAPPORRE IL “PERSONALE” AL “POLITICO”

Di Giuseppe Brienza

Uscito il 22 aprile per Armando Curcio Editore, il libro Nelson Mandela. Il perdono è un’arma potente (Roma 2021, pp. 61, € 14,90) ripete la consueta narrativa politicamente corretta sul fondatore dell’African National Congress (ANC) e presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999. Quindi la prosopopea sul «primo presidente sudafricano non bianco» e sull’«uomo simbolo per i diritti umani», attestazioni solennizzate con il conferimento al Madiba, nel 1993, del Premio Nobel per la pace dopo aver scontato 27 anni di carcere in nome della lotta al “segregazionismo razziale”.

Il libretto, diretto in particolare a bambini e ragazzi, non poteva avere un taglio diverso, essendo l’autore Gianluca Grassi, esperto «di relazioni internazionali e dialogo interculturale», incaricato di curare i rapporti di gemellaggio tra il Comune di Reggio Emilia e la provincia sudafricana del Guateng, tenendo conto che nel 1977 questa amministrazione rossa fu la prima tra le città europee ad appoggiare l’ANC nella lotta contro l’apartheid.

Vivendo tempi nei quali la dissimulazione ideologica continua ancora a battere sull’argomento razziale (vedi il movimento dei Black Lives Matter), vale la pena tornare sulla figura del “falso mito del Novecento” Nelson Mandela, iniziando a vedere dove nasce la sua leadership politico-ideologica.

A Mandela si deve naturalmente il merito storico di aver saputo pilotare il Sudafrica attraverso un’ardua fase di transizione che avrebbe potuto essere anche peggiore di quella che si è determinata ma, tale merito, egli lo deve comunque condividere con Frederik de Klerk, il leader “partito bianco” eletto nel 1989 sulla base di un programma di superamento della segregazione razziale che, nel febbraio 1990, liberò Mandela dal carcere mettendolo così in grado di riassumere in modo incondizionato la guida dell’ANC. Durato dal 1948 al 1991, l’apartheid fu un regime senza dubbio moralmente discutibile ma, la sua esatta coincidenza cronologica con la Guerra fredda, deve essere ben considerata per capirne le reali origini e sviluppi. Durante questo mezzo secolo, ha scritto giustamente Robi Ronza, il Sudafrica è stato «il grande sogno di conquista dell’Unione Sovietica, la cui moneta, il rublo, per carenza di copertura, non era nemmeno convertibile sui mercati monetari internazionali» (Mandela e la fine della Guerra Fredda, in La Nuova Bussola Quotidiana, 12 dicembre 2013).

Come confermò in una intervista circolata internazionalmente l’anno prima della sua elezione alla presidenza della Repubblica sudafricana, Mandela ha sempre difeso la “componente comunista” del suo partito, dichiarando che «i comunisti che aderiscono all’ANC sono all’avanguardia nella lotta per la creazione di un ordinamento pienamente democratico» (cit. in Parla Nelson Mandela. Adesso vi mandiamo in bianco, in L’Espresso, aprile 1993, p. 86). Forse proprio a questo risalgono le scelte abortiste ed omosessualiste della nuova Costituzione sudafricana, da lui voluta e promulgata il 10 dicembre 1996. Nella nuova Carta post-apartheid, come altre volte accaduto in testi normativi pro choice, la parola “aborto” non compare mai. Il diritto all’interruzione di gravidanza è piuttosto introdotto sotto le mentite spoglie della c.d. “salute riproduttiva”, concetto di conio internazionalistico che implica l’autodeterminazione nella procreazione ed il diritto a godere e a controllare la propria vita sessuale e procreativa. L’art. 12, quindi, considera il “diritto” abortista come una esplicazione di quello alla libertà e sicurezza personale, stabilendo che a ciascun cittadino sia riconosciuto il «diritto alla propria integrità fisica e psicologica, che comprende anche il diritto di assumere liberamente decisioni riguardanti la riproduzione».

Molto altro si potrebbe aggiungere ma, soprattutto di fronte ad un testo che, come età di lettura consigliata dall’editore si rivolge ad un pubblico di 10 anni, ci sembrerebbe davvero consigliabile, da parte di genitori, educatori e insegnanti, una maggiore cautela e approfondimento prima di sottoporre versioni trionfalistiche a bambini e ragazzi. Conoscere e far conoscere i fatti e non le opinioni sulla vicenda storico-politica del Madiba e sull’assai poco edificante eredità da lui lasciata ai sudafricani indurrebbe forse a presentare altri testimoni, ad esempio, per iniziative come la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, che ricorre ogni 21 marzo ed è stata istituita nel 1966 dalle Nazioni Unite proprio sulla base di una unilaterale visione delle vicende del periodo dell’apartheid.

A tacer d’altro ricorderemo che, nonostante abbia a disposizione risorse sovrabbondanti per sollevare le condizioni economico-sociali e combattere le malattie che affliggono la nazione, nei trent’anni del post-apartheid il Sudafrica guidato dall’ANC è divenuto invece uno dei primi al mondo per povertà e criminalità diffusa, oltre che per numero di malati affetti dal terribile morbo dell’AIDS. Il Sudafrica detiene oggi il primo posto nella media statistica mondiale degli stupri e, come ha scritto Rino Cammilleri nella sua Prefazione all’unico libro critico uscito sul “nuovo Sudafrica” dopo la morte di Mandela, anche questo triste primato dimostra che la decolonizzazione «fu solo l’inizio dei problemi dell’Africa lasciata a sé stessa» (C’era una volta il Sudafrica, in G. Brienza – O. Ebrahime – R. Cavallo, Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia ancora da scrivere, D’Ettoris Editori, Crotone 2014, p. 7).

Quindi anche la Prefazione che il cardinale di Bologna Matteo Zuppi, in virtù della sua conoscenza personale di Mandela, ha scritto per il libretto, appare inopportuna. È vero che l’Arcivescovo l’ha fondata sulla propria esperienza diretta e umana del Madiba ma, inevitabilmente, essa finisce per “asseverare” la ricostruzione politica e la vulgata ideologica riproposta questa volta addirittura a bambini e ragazzi dall’Autore. E non è un caso che, fra i recensori entusiasti di Nelson Mandela. Il perdono è un’arma potente, la Prefazione del porporato sia addirittura definita «preziosa» (Alex Corlazzoli, ‘Nelson Mandela, il perdono è un’arma potente’: un libro illustrato per raccontare ai più giovani chi era Madiba, Il Fatto quotidiano, 18 luglio 2021).

Scrive, fra l’altro, il card. Zuppi: «Ricordo la sua fermezza nel prendere posizione sulle varie tematiche, sapendo distinguere bene le ingiustizie e scegliendo sempre la via che avrebbe favorito la convivenza tra le etnie. Reggio Emilia era una città ben nota a Mandela, perché la sua lotta contro l’apartheid aveva ricevuto molti aiuti proprio dall’intera città». Ma un vero testimonial, coerente oltre che credente (di fede cristiana) della lotta per l’uguaglianza in Sudafrica è semmai il dimenticato Albert Luthuli (1898-1967), capo politico zulu e predicatore capo della Chiesa congregazionalista nell’Unione Sudafricana. Luthuli ha servito davvero il popolo sudafricano, prima per trent’anni come insegnante e poi, eletto nel 1952 presidente dell’ANC, imponendo al partito una linea rigorosamente non-violenta. Anche a lui, più volte arrestato e confinato a partire dal 1957 dalle autorità al potere del National Party, è stato riconosciuto il Premio Nobel per la pace nel 1960. Allora perché documentari, film, libretti e apologie sono solo destinati al suo successore? Forse a causa del rigetto del comunismo e di ogni forma di violenza da parte di Luthuli, compresa quella rivolta contro i bianchi, perché motivato da quella profonda fede cristiana di cui fu privo, per sua stessa ammissione, il Madiba.

A conclusione del suo libro autobiografico Africa in cammino (SEI, Torino 1969), edito in Italia da un benemerito sacerdote piemontese, don Aristide Vesco (1922-1966), il vero leader non-violento della lotta contro l’apartheid sudafricana ha lasciato fra l’altro scritto: «mi sforzo di abbandonarmi, con piena fiducia, al volere divino, dicendo: “Dio provvederà”. È inevitabile, quando ci si adopera per ottenere la libertà, che qualche singolo o qualche famiglia abbia a sostenere il peso della lotta e soffra: la strada che conduce alla liberazione è quella della Croce» (p. 398).

Per concludere questa recensione con una nota positiva, va dato atto nel libretto della Curcio Editore dell’apprezzabile ed evocativo tratto grafico dell’illustratore Filippo Barbacini, il cui disegno accattivante e specializzato per l’infanzia è frutto del corso triennale di illustrazione della nota Scuola Comics di Reggio Emilia.

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